Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.

renzi-berlusconi-politica-vs-giustiziadi Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita - 19 marzo 2015
Da oltre un quarto di secolo la questione giustizia è nella deriva italiana LA questione cruciale, che riassume tutte le altre e ne condiziona e anzi determina la soluzione.
Il governo Renzi, attraverso emendamenti a leggi che si occupano d’altro, finte riforme che “spacchettano” reati rendendoli di fatto impunibili, modifiche parziali tanto procedurali che penali, sta realizzando la contro-riforma della giustizia che non era riuscita a Berlusconi.
Questa azione, che apre praterie e realizza ponti d’oro per la criminalità politica e imprenditoriale, riesce solo per mancanza di opposizione efficace e l’assenza di un pacchetto coerente di riforme vere attorno a cui raccogliere nella protesta e nella proposta le forze ancora vive della società civile.
Ecco perché apriamo la discussione con questo testo di Ardita e Davigo, che si occupa tuttavia solo di uno dei due aspetti della questione, quello della crisi dell’associazionismo dei magistrati, che rende più facile l’azione contro-riformista del governo Renzi in continuità con quelli precedenti di Berlusconi.
A questa discussione vorremmo se ne accompagnasse un’altra sulle principali misure di legislazione procedurale e penale da contrapporre al disegno bipartisan contro la giustizia, che è il vero cuore pulsante del famigerato patto del Nazareno. Per arrivare a realizzare un grande convegno nei tempi più brevi, non appena sarà evidente che settori importanti della magistratura sentono l’urgenza di proporre il pacchetto di riforme che del resto MicroMega ha articolato ampiamente in un recente numero monografico.
Proprio l’esplicito impegno riformatore, da cittadini, è la migliore risposta alle accuse di “politicizzazione” della magistratura, che in genere colpiscono proprio i magistrati che più rigorosamente si attengono al principio di “soggetti soltanto alla legge”, e vengono
vociferate a tanti più decibel proprio da quanti nei fatti lavorano per la subordinazione dei magistrati a logiche governative o di schieramento. (pfd’a)

Partiamo dalla Giustizia

La crisi della giustizia in Italia va avanti da quarant’anni, senza che nessuno si sia mai preoccupato di comprenderne la reale causa: il grande numero di processi che si celebrano. Ogni anno nel nostro paese vengono iniziati un numero di processi civili che è pari a quello di Francia, Gran Bretagna e Spagna sommati insieme. Questo eccesso di domanda di giustizia è causato dal fatto che da noi si tutela molto di più chi viola la legge piuttosto che chi subisce la violazione. La mancanza di strumenti adeguati di tutela incentiva i comportamenti illegali e così cresce il numero dei processi. Del resto non si spiega perché mai un debitore dovrebbe adempiere alle sue obbligazioni se – anche dopo avere perso la causa in giudizio – tutto ciò che rischia è versare quel che deve appena maggiorato di un minimo tasso di interesse: egli avrà tutto l’interesse ad allontanare il momento in cui dovrà pagare il debito. A differenza di ciò che accade altrove, il debitore inadempiente non avrà conseguenze serie e gravi per non avere adempiuto ad una obbligazione. Nel processo penale la lunghezza dei processi – e l’accesso ai mezzi di impugnazione senza conseguenze per i colpevoli – indirizza le cause verso la prescrizione, rendendo inutili e defatiganti le attività dibattimentali.

Chi ha la responsabilità politica di questo sfascio della Giustizia, anziché porre rimedi per evitare che il sistema tuteli gli inadempienti ed i colpevoli – rendendo sconveniente violare la legge – ha pensato di aumentare la produzione di sentenze. E così oggi i magistrati italiani sono costretti a lavorare tre volte di più rispetto ai colleghi di altri paesi europei, senza che però questo comporti benefici in termini di giustizia reale. La quantità di lavoro svolto va peraltro a danno della qualità, perché comporta la necessità di svolgere più lavoro nello stesso tempo.
A fronte di ciò, non solo nessuno riconosce alcun merito ai magistrati italiani, ma per di più chi ha la responsabilità politica di questo sfascio addita i magistrati come colpevoli del cattivo funzionamento della giustizia.

I rapporti magistratura-politica

La conflittualità nel nostro paese tra politica e giustizia dura all’incirca da quando dura la crisi della Giustizia. Questo potrebbe spiegarsi in linea generale col principio della separazione dei poteri, che è vigente in tutte le democrazie occidentali. Ma in Italia esiste un dato ulteriore: vi è un grado elevato di devianza della classe politica che non ha paragoni con altre esperienze. E’ vero infatti che in Germania ad esempio un presidente della Repubblica si è dimesso per avere chiesto un prestito ad un amico ed un ministro per avere copiato parte di una tesi di dottorato. Mentre in Francia un banchiere destinato a concorrere per il ruolo di primo ministro si è ritirato dalla vita politica per essere stato coinvolto in uno scandalo sessuale, ben prima che la vicenda venisse definita sul piano giudiziario.

Nel nostro paese invece ruoli di primo piano sono stati mantenuti da soggetti imputati di gravissimi reati o da persone finite al centro di importanti scandali. Si è ritenuto che tali ruoli potessero essere mantenuti nonostante processi e condanne. Forse questa potrebbe essere una delle spiegazioni dello scontro tra politica e magistrati.

E così la recente storia dei rapporti tra politica e magistratura – tenuti in equilibrio nell’era di governo della Democrazia Cristiana – si è trasformata in conflitto a cavallo tra la prima e la seconda Repubblica. A partire dai primi anni ’90 si sono registrati attacchi frontali al potere giudiziario, che hanno trovato espressione in minacciosi propositi di riforma di tipo ordinamentale. Ciò è avvenuto in un periodo nel quale i magistrati vantavano ancora una buona condizione professionale ed un forte sostegno della opinione pubblica, ancora scossa dalle stragi mafiose e sensibile al contrasto del fenomeno della corruzione, emerso negli anni della c.d. tangentopoli.

Fatto sta che alcune riforme hanno inciso anche sulla gestione del potere interno alla magistratura, e così hanno condizionato anche la sua capacità di rispondere all’esterno. Tanto per fare un esempio, sul presupposto dichiarato di ridurre il peso delle correnti nel CSM, è stata introdotta la legge di riforma per la sua elezione. La nuova disciplina ha ridotto il numero dei componenti dell’organo di autogoverno introducendo un sistema maggioritario con collegio unico nazionale, e così ha eliso qualsiasi possibilità che libere minoranze e gruppi non allineati potessero eleggere un loro rappresentante. Il potere dei gruppi associativi si è oltremodo ampliato e si è posta per la prima volta in termini generali la questione dell’ “indipendenza interna”, ossia del potere smisurato delle correnti sulla vita professionale dei singoli magistrati.

Il potere politico a parole ha attaccato il correntismo, ma in concreto ha ritenuto di poter trarre vantaggi dalla possibilità – o anche solo dalla prospettiva – di avere interlocutori unici a fronte della “incontrollabilità” del potere giudiziario diffuso sul territorio. E per altro verso ha sempre continuato a cercare alleati tra i magistrati contro la magistratura.
Vi è stata nel 2006 l’approvazione di un nuovo ordinamento giudiziario acclamato da molti come uno strumento di maggiore efficienza produttività e rigore, che in verità si è poi rivelato foriero di divisioni all’interno della magistratura. Si è trattato di una riforma non dei percorsi e degli strumenti di giustizia ma dell’organizzazione interna, e che pertanto ha scaricato sui giudici tutti i problemi, tenendo franchi gli altri poteri da un impegno concreto e reale.

La Connessione tra crisi della giustizia e rapporto magistrati politica. La perdita di orizzontalità nella nuova gerarchia degli uffici giudicanti. La debolezza del giudice.

La crisi della Giustizia e i rapporti politica-magistrati sono due temi tra loro intimamente connessi. Perché, attraverso le soluzioni sbagliate offerte per risolvere la crisi della Giustizia, la politica ha sviluppato l’iniziativa per mettere sotto accusa il lavoro dei magistrati e per ridurre il controllo di legalità sulla politica. Il costo sociale di questa operazione politico-mediatica passa dunque ancora una volta sulla pelle dei cittadini: occorre che la giustizia non funzioni per scaricare sui giudici la responsabilità. E così i cittadini vengono privati non solo del diritto ad una giustizia rapida ed efficiente, ma diventano anche cavie per scaricare sui magistrati l’inefficienza del sistema.

In questa operazione anche la magistratura associata e l’autogoverno dei giudici hanno fatto la propria parte, rincorrendo – con miopia politica – un modello di efficienza e di produttività interna, ed accettando supinamente un sovraccarico di lavoro giudiziario prodotto da un sistema sbagliato, che ha reso disfunzionale il servizio giustizia.

Questo disastro si è realizzato anche attraverso la remissiva accettazione del nuovo modello efficientista disegnato dal nuovo ordinamento giudiziario. Si è fatto strada un principio di produttività numerica, con riflessi sul rapporto quantità/qualità del lavoro; si è sottovalutata l’assenza di preparazione dei capi degli uffici anche nella specifica capacità manageriale di riequilibrare il predetto rapporto; si è determinata una proliferazione dello strumento disciplinare, anche con funzione di orientamento nella gestione e organizzazione del lavoro; si è introdotta una previsione di obblighi di denuncia disciplinare non solo in capo ai dirigenti ma anche ai presidenti dei collegi giudicanti, con il rischio di avvelenare la vita negli uffici ed i rapporti fra colleghi; si sono determinati modelli organizzativi fortemente connotati dalla gerarchia, non solo negli uffici requirenti (dove, entro certi limiti, può essere funzionale alle esigenze dell’accusa) ma persino negli uffici giudicanti, ove l’accentramento dà l’idea della predeterminazione delle decisioni e della impossibilità di divergere dalle direttive dettate dal vertice. Per converso la magistratura associata ha rinunciato a denunciare un sistema che gira a vuoto per colpa della politica, fondato sulla mancanza di effettività degli strumenti penali e sulla inidoneità degli strumenti civili.

La conseguenze che ha prodotto sul piano interno l’introduzione del nuovo ordinamento giudiziario sono sotto gli occhi di tutti. I capi degli uffici, i cui incarichi sono temporanei e soggetti al controllo del CSM, si sono indeboliti rispetto al CSM. Per altro verso il loro ruolo si è rafforzato all’interno degli uffici attraverso l’introduzione di maggiore gerarchia nei confronti dei magistrati sottoposti.

Il CSM da parte sua ha pressato sullo strumento disciplinare per sanzionare i ritardi dei magistrati. L’effetto combinato di tali azioni è stato quello di alimentare in modo cieco i meccanismi di produttività meramente statistica, a prescindere dalla qualità, senza porsi il problema della concreta utilità di un sistema di giustizia basato sull’inflazione degli strumenti, sulla prescrizione dei reati e sui ritardi. Sarebbe bastato mettere in fila alcune semplici proposizioni e fin dalla fase dell’autogoverno rifiutarsi di trasformare le aule di giustizia in sentenzifici, sostenendo che:

1) non è sulla quantità dei provvedimenti che si fonda una giustizia efficiente, ma anzi al contrario sulla limitazione dell’abuso degli strumenti a disposizione del cittadino: l’accesso strumentale al servizio giustizia va scoraggiato attraverso strumenti di natura sanzionatoria.
2) esiste un carico di lavoro, oltre il quale la qualità del servizio giurisdizionale cala; occorre che la politica si preoccupi di varare strumenti che mantengano il carico proporzionato alle risorse umane a disposizione.

Tutte queste problematiche sono state assolutamente ignorate e neglette dal nostro associazionismo e dall’autogoverno. Molti capi degli uffici – spinti dall’idea che per far carriera occorresse obbedire alle direttive di produttività del CSM – si sono uniti al fronte degli efficientisti, ossia a quanti sostengono che la giustizia non funziona perché i magistrati devono lavorare di più, e non si pongono il problema di un sistema privo di razionalità e che gira a vuoto.

Sul piano strettamente psicologico – che è uno dei piani su cui si gioca, come vedremo, la partita politica-magistrati – non va poi sottovalutato l’effetto dell’utilizzo dello strumento disciplinare. L’eccesso di disciplinare – connesso ad una richiesta di produttività abnorme e non ad aspetti riconducibili alla dimensione etico-comportamentale – produce infatti effetti opposti a quelli che vi si dovrebbero ricondurre. Sono stati trascinati dinanzi al giudice disciplinare alcuni tra i migliori magistrati italiani, colpevoli di non avere depositato decisioni per le quali era oggettivamente difficile redigere nei termini articolate e coscienziose motivazioni. Ciò ha prodotto conseguenze gravi. Il disciplinare ingiusto determina infatti una difficoltà di identificazione con l’istituzione, che può incidere sull’esercizio della funzione. Per altro verso sul piano collettivo non rappresenta affatto un deterrente, ma un motivo di mortificazione della categoria. Sia sul piano individuale che su quello collettivo dunque, inseguire il modello della quantità proposto dalla politica a discapito dell’efficienza ha demotivato i magistrati, indebolendo l’autorevolezza della funzione giurisdizionale. E siccome il CSM è formato dalle correnti, e chi è iscritto alle correnti si sente più tutelato, il sistema delle tutele di corrente a fronte della debolezza dei singoli ha determinato una perdita di autonomia ed indipendenza, tanto nel lavoro degli uffici quanto nella loro conduzione.

Per altro verso non bisogna trascurare il fatto che il sistema punta a mettere i magistrati gli uni contro gli altri. Alla perdita della tradizionale pari-ordinazione dei rapporti personali tra magistrati ha fatto eco perciò il rischio di ricondurre ad un ruolo subordinato ed impiegatizio chi è chiamato ad applicare la legge e, per il suo tramite, ad affrontare e risolvere le iniquità del sistema sociale. E’ cambiata dunque la magistratura nel suo bene più prezioso: quello della orizzontalità dei rapporti interni agli uffici sancita dal principio costituzionale che i giudici si distinguono solo per funzioni.

In questo contesto di debolezza psicologica vanno lette le iniziative che hanno minato lo statuto professionale, la praticabilità del ruolo, i mezzi a disposizione, e financo la dimensione personale e retributiva del singolo magistrato. Si è trattato di manovre reiterate ed insidiose, utilizzate facendo leva su slogan che potrebbero essere graditi ai cittadini. Da un lato sono state create condizioni per proclamare la bancarotta del sistema giustizia e per potere affermare con un giudizio sommario la responsabilità dell’ordine giudiziario, dall’altro si è diffuso un senso di insicurezza nei magistrati. Si sono dunque creati ad arte i presupposti del malcontento dei cittadini verso la giustizia e le condizioni di debolezza della magistratura per costituire un viatico a possibili e successive riforme, ulteriormente limitative dell’autonomia del giudicare.

I ritardi e gli anacronismi di una magistratura associata da prima repubblica.

La recente riforma della responsabilità civile dei magistrati ha colto impreparato l’associazionismo giudiziario e qualcuno ha cominciato a capire che il disegno va ben oltre.
Finora infatti il mondo associativo le ha sbagliate tutte perché, anziché parlare la lingua dei magistrati, ha preferito imporre un proprio modello di efficienza in modo verticistico. Ha così rinunciato ad intercettare il loro disagio, ad approntare soluzioni, a costruire una difesa della loro condizione personale e professionale che fosse coerente col ruolo del giudice. L’indipendenza della magistratura – ma sarebbe meglio dire il potere della casta di autogoverno – è stata salvaguardata rinunciando alla indipendenza dei singoli magistrati compromessa dalla nuova gerarchia e da una sempre maggiore debolezza della base. In questo contesto vanno lette le battaglie sulle condizioni di lavoro fatte solo da una parte della magistratura; ma anche le timidezze, le omissioni e le contraddizioni della maggioranza ANM sui carichi di lavoro, sul disciplinare, sulla questione economica. Tutti temi tra loro fortemente collegati dal presupposto che un giudice intimidito, privo di mezzi, ricondotto all’obbedienza, sovraccarico e minacciato disciplinarmente non può corrispondere al modello previsto nella Costituzione: perché non avrà la forza, l’indipendenza, la capacità di tutelare ed affermare i diritti violati, specie se reclamati da contraenti deboli in contraddittorio con i poteri forti.

Ma qual’è la vera ragione che ha reso inadeguate le correnti nel farsi rappresentanti del vero interesse dei magistrati e della giustizia?
Le tradizionali formazioni della magistratura associata sono sorte in una fase di grande contrapposizione ideale. Esse avevano trovato un terreno comune nella vera indipendenza del giudice dal potere e dalle gerarchie interne, mentre oggi tutte insieme ne avallano la ricostituzione. Conclusasi la stagione dei grandi conflitti ideologici, nessuno dei soggetti politico-associativi ha saputo dare riposte adeguate ai cambiamenti socio-politici che si erano determinati. Nessun gruppo ha saputo trovare buone ragioni per continuare ad esistere contrapposto agli altri, se non per interessi di lobby.

Il dominio culturale dell’ANM è stato tutto della c.d. sinistra giudiziaria che è arrivata al potere, lo ha esercitato ed ha continuato ad accreditare l’immagine della questione morale e della iniziativa politica, e ciò solo e semplicemente per l’assenza di un modello “politico-associativo” alternativo. Ebbene, influenzato da questa apparente dialettica interna, lo schema generale dei rapporti con la politica ha risentito per anni del pregiudizio della destra da combattere e della sinistra con cui dialogare. Questo assioma era fondato su di una posizione storico-politica che potrebbe definirsi “sindrome del governo amico”. E’ la medesima sindrome che condusse con facilità allo sciopero contro il governo di centro-destra e portò alla rottura dell’unità associativa ed i cui effetti residui tenderebbero oggi a frenare le iniziative di protesta pure a fronte di modifiche ordinamentali che rischiano di travolgere l’assetto costituzionale della magistratura.

Si tratta con ogni evidenza di una posizione che tradisce un pregiudizio ideologico, sia pur storicamente fondato. Esso è ricavato dall’atteggiamento della sinistra tradizionale italiana, che ha riconosciuto nell’azione della magistratura tout court uno degli strumenti fondamentali per il superamento delle ingiustizia sociali; e per converso dalla posizione del moderno centrodestra che ha visto nella magistratura un ostacolo al governo del paese.

Senonché la validità dello schema, che ipotizza l’esistenza di un governo amico per i magistrati, è finalmente smentito – persino nelle dichiarazioni d’intenti – dal processo di larghe intese che attraversa l’azione riformatrice sulla giustizia.
E dunque il ritardo nell’azione della magistratura associata sta proprio in questo, nel fatto che essa vive, si organizza e parla come se fossimo ancora nella prima repubblica.

La novità politica più rilevante è data proprio da quella intesa denominata col l’espressione Patto del Nazareno: una intesa bipartisan che ha portato unità d’intenti delle forze politiche nel ridimensionare la Giustizia, con l’intento dichiarato di riequilibrare i poteri dello Stato. Essa si è sostanziata in una condivisione non solo del piano degli interventi normativi ma anche delle scelte in materia di autogoverno. Una alleanza a tutto tondo che attende solo di divenire maggioranza con l’aiuto dei magistrati.

La reazione alla crisi del correntismo

La base dei magistrati ha reagito come poteva alla crisi del correntismo.
Partendo dalla denuncia dalla incapacità e del malgoverno delle correnti – manifestatasi con episodi di clientelismo – è stata sollevata la questione della incompatibilità tra associazionismo ed autogoverno e dei rapporti visibili ed occulti tra mondo politico e mondo associativo.

Questa posizione è stata espressa nella “Proposta B”, – presentata nel corso di una assemblea generale invocata dalla base dei magistrati, e sostenuta da una lucida e complessa critica del sistema – con la quale, preso atto del fallimento dell’esperienza politica delle correnti si prevedeva una linea di demarcazione invalicabile tra associazionismo ed autogoverno. La logica proiezione di tale proposta si sostanziava nella ulteriore e separata proposta del sorteggio per la scelta dei componenti del CSM. La conseguenza di una tale impostazione sfociava nella impietosa conclusione della impossibilità di un autogoverno efficiente e giusto, e nella sua rinuncia in favore di una gestione tecnica. La Proposta B rappresentava dunque una fortissima provocazione politica, ovvero, se presa alla lettera, la morte stessa della politica associativa con la rinuncia alla prerogativa costituzionale dell’autogestione su basi di rappresentanza. Essa, al di là della provocazione conteneva dunque una istanza ineludibile: quella della incompatibilità intesa come incontaminazione dalla politica. Una richiesta alla rappresentanza e all’autogoverno di operare con un’azione alta ed al di sopra di ogni sospetto.

L’unità difficile da ricostruire

Dopo l’approvazione della legge sulla responsabilità, a fronte del fallimento di ogni politica sulla giustizia, l’atteggiamento eccessivamente prudente dell’ANM rischia di creare nuove fratture interne. Tale atteggiamento è criticabile, ma al tempo stesso è pure vero che mai come in questo momento la magistratura deve affrontare la politica senza avere alleati nell’opposizione.
Preso finalmente atto della inesistenza del governo amico, la magistratura associata dovrebbe riprendere un percorso comune a difesa del suo statuto costituzionale. E invece sembra di essere ad un passo dall’esplosione di una guerra interna il cui vero risultato non sarebbe certo quello di salvaguardare i valori della magistratura ma semmai quello di indebolirla ulteriormente.

Se vale il principio che le disfunzioni della giustizia, il conflitto con la politica e l’indebolimento organizzativo e psicologico della magistratura sono questioni collegate è fin troppo semplice affermare che solo l’unità potrebbe scongiurare in questa fase ulteriori riforme normalizzatrici. Ma al tempo stesso è difficile raggiungere e mantenere un atteggiamento unitario. E’ infatti necessario che la maggioranza ANM comprenda l’errore politico commesso sinora, e che chi contesta l’ANM sappia evitare la tentazione di trasformare il conflitto col governo in un conflitto interno.

Il dato di partenza è che la politica – che ha ritrovato la propria unità – ha interesse a dividere i magistrati. L’idea rimane infatti sempre quella di trovare alleati tra i magistrati contro la magistratura. E’ un progetto antico e non serve certo richiamare i propositi della P2 – velleitari e fortunatamente all’epoca non recepiti – per comprendere come esso sia di attualità anche ai giorni nostri.

La vecchia ANM deve superare i suoi schemi da prima repubblica e i magistrati devono ritrovarsi uniti nell’interesse dei cittadini. Troveranno poi il tempo e il modo per distinguersi e modificare gli assetti di maggioranza interni all’autogoverno, ma devono impedire che la loro azione possa essere utile a favorire la normalizzazione della Giustizia. Occorre dunque rifondare l’associazionismo partendo dalla nuova dimensione della minaccia al modello costituzionale di giustizia, ma non si può rinunciare alla tutela del lavoro dei singoli, alla definizione di carichi accettabili e compatibili con la qualità delle decisioni giudiziarie. Una difesa della magistratura senza difesa dei singoli magistrati rappresenterebbe un suicidio. Mentre i rischi di una mera contrapposizione sindacale alla politica, “senza linea politico-associativa” – e cioè senza elaborare le idee, le direttrici ideali, le regole comportamentali del giudice indipendente – sono sotto gli occhi di tutti. Essi vanno dalla mera contrapposizione senza progetto, alla tutela clientelare, sino al rapporto deviato con la politica, con l’accettazione di un ruolo burocratico ed impiegatizio in cambio di piccoli vantaggi personali.

Per questa ragione il punto unificante può essere rappresentato solo da una netta separazione tra impegno associativo e partecipazione alla vita politica, che è cosa diversa dalla collaborazione istituzionale con gli altri poteri dello Stato. Ora più che mai si impone un percorso di trasparenza nelle scelte associative che non possa prestarsi ad equivoci o fraintendimenti di sorta nel rapporto tra magistrati e politica. Né alleanze palesi ed ideologiche, né comportamenti sotterranei da sindacato giallo.

Solo un nuovo associazionismo potrà restituire all’area enorme dei magistrati, che si riconoscono nel modello di autonomia ed indipendenza disegnato dalla Costituzione, il diritto di essere orgogliosi di coltivare una idea comune della giurisdizione e non un comitato di interessi personali o di parte.

Tratto da: temi.repubblica.it/micromega-online

ANTIMAFIADuemila
Associazione Culturale Falcone e Borsellino
Via Molino I°, 1824 - 63811 Sant'Elpidio a Mare (FM) - P. iva 01734340449
Testata giornalistica iscritta presso il Tribunale di Fermo n.032000 del 15/03/2000
Privacy e Cookie policy

Stock Photos provided by our partner Depositphotos