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accordidi Nicola Tranfaglia - 5 febbraio 2015
Frammenti di una verità difficile e sgradita emergono a fatica giorno per giorno dalle deposizioni che si tengono in questi giorni di inizio febbraio 2015 dal bunker delle carceri di Rebibbia a Roma dove la corte di Assise di Palermo presieduta da Montalto tiene le sue udienze sul capitolo, ancora parzialmente oscuro, delle trattative tra mafia e Stato all'inizio degli anni Novanta. Nell'opinione pubblica nazionale, purtroppo, c'è ancora l'idea, profondamente sbagliata, che la guerra, più volte proclamata a piene lettere tra Cosa Nostra (e le altre associazioni mafiose come Ndrangheta calabrese, Camorra campana e Sacra Corona unita pugliese) e lo Stato italiano con i suoi organi di governo, sia stato un fatto episodico continuamente interrotto dal succedersi di atti bellici più o meno violenti. Le cose, per chi studia da molti anni i fenomeni mafiosi, non sono così semplici e possiamo dire con una certa sicurezza che, accantonando per ora la questione che riguarda l'Italia liberale e prefascista, a partire dallo sbarco angloamericano in Sicilia nel luglio 1943 i rapporti tra le associazioni mafiose e le istituzioni statali ci sono state e non sono sempre contrassegnate dalla guerra aperta o sotterranea. Se ne ha la conferma proprio in queste udienze nel bunker del carcere romano di Rebibbia.

Si alternano sul podio dei testimoni i capi mafia noti come il corleonese Leoluca Bagarella che ha fatto parte, per così dire, del gruppo di comando di Cosa Nostra diretto per molti anni da Totò Riina e successivamente da Bernardo Provenzano, che ai giudici siciliani ha voluto soprattutto smentire le dichiarazioni rese in precedenti udienze da Tullio Cannella, Angelo Siino, Vincenzo Sinacori e Giovanni Brusca che hanno raccontato i progetti separatisti siciliani messi in cantiere da Cosa Nostra nel 1992 che riprendevano i sogni degli anni quaranta per il distacco dell'isola maggiore dallo Stato italiano e la creazione di un nuovo Stato denominato "Sicilia libera". Ma è difficile credere che quelle dichiarazioni siano davvero attendibili visto che sono ormai accertati alcuni elementi importanti della scena politica e istituzionale nei primi anni novanta. In altri termini è ormai chiaro che: 1) durante il governo Andreotti si sono verificate forti oscillazioni nel trattamento in carcere dei detenuti mafiosi e sul piano istituzionale ci sono state forti resistenze all'applicazione del carcere duro che proprio il giudice Falcone aveva instaurato, grazie alla collaborazione con il ministro della Giustizia Martelli come direttore generale degli Affari Penali; 2) Cosa Nostra era presente in parlamento attraverso suoi esponenti (come, con ogni probabilità, il deputato siciliano Salvo Lima ucciso nel marzo 1992 per aver mancato ai patti conclusi a suo tempo); 3) l'aspetto più importante per la nostra storia, dopo lo scontro e il ricatto di Riina, che ha minacciato nuovi attentati dinamitardi se non ci fosse stato un miglioramento delle condizioni detentive dei mafiosi, da parte del Ministero della giustizia, del Dap e delle Forze dell'Ordine, per la debolezza o la parziale connivenza di alcuni dei capi, si sia giunti nel massimo silenzio a una nuova coabitazione tra mafia e Stato. Se le cose sono andate così, non c'è da essere per nulla soddisfatti ed è necessario, invece, comprendere cosa è successo e quali sono le responsabilità dei singoli. Il processo di Palermo dovrebbe servire proprio a raggiungere questo obbiettivo.

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