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via-damelio-web1di Nicola Tranfaglia - 13 novembre 2014
Era inevitabile che le udienze, destinate a succedersi fino alla sua difficile conclusione, del processo Borsellino quater, che in questi giorni si è svolto nell'aula bunker del carcere di Rebibbia, facessero riemergere i misteri tuttora presenti nella strage di via d'Amelio il 19 giugno 1992 in cui vennero uccisi, con il giudice siciliano, i cinque agenti della sua scorta.
Alcune deposizioni rese nel tempo da alcuni dei protagonisti più importanti di quel drammatico momento - l'ex presidente della Commissione Antimafia Luciano Violante, gli ex ministri della Giustizia Conso e Martelli, l'ex ministro degli Interni Vincenzo Scotti, hanno reso deposizioni che, in un certo senso, complicano, piuttosto che semplificare il quadro che emerge dalla strage di ventidue anni fa.

Il punto iniziale della ricostruzione parte, e non potrebbe essere diversamente, dalla revoca di 300 procedi menti di articoli 41 bis nel novembre 1993 e la proposta di una riduzione successiva di un altro dieci per cento dei regimi restanti di carcere duro a detenuti mafiosi per dare un "segnale positivo di distensione" proprio mentre Cosa Nostra continuava a spargere attentati e bombe in tutta Italia. Sembra una grande festa dell'oblio rispetto alle precise circostanze di quel dramma consumata nella calda estate delle stragi di Palermo. La proposta della revoca-aveva ricordato l'ex ministro Conso-era stata del vicecapo del DAP (Dipartimento delle Carceri, co-protagonista del misterioso protocollo Farfalla di cui già ho parlato) Francesco Di Maggio, nominato a quell'incarico non avesse i titoli richiesti dalla legge. E nessuno, neppure oggi, sa spiegare perché fu nominato: né il suo capo di allora Adalberto Capriotti, che se lo trovò quasi imposto come suo vice e sostituto, né l'ex ministro Conso. Capriotti, interrogato dai magistrati il 14 dicembre 2010, aveva risposto di non saperne nulla: "Non ne venni a conoscenza. D'altra parte tra le carte, la mancata proroga fu portato a conoscenza del ministro. L'ex capo del D.A.P. Nicolò Amato, ha dichiarato, da parte sua, che se il ministro non ha firmato l'autorizzazione perché l'allora capo del D.A.P. potesse firmare i 341 bis questo dipese dal fatto "che ci sono stati interventi impropri di altri uffici". Amato ha raccontato che nel febbraio 1993 il capo della polizia Vincenzo Parisi intervenne in una riunione del Comitato Nazionale di Sicurezza, esprimendo "riserve" sulla durezza eccessiva del regime penitenziario "perché creava tensione tra i "familiari" dei detenuti mafiosi. "Dopo l'avvicendamento di Capriotti-ha ricordato ancora Amato-gli appunti successivi del D.A.P. furono stranamente indirizzati anche alla Direzione nazionale antimafia, al ministero dell'Interno e al Coordinamento degli istituti di pena, interlocutori con i quali non avevo mai avuto ragione di parlare per cercare un consenso positivo. L'ex capo del D.A.P. infine ha smentito l'ex presidente della Commissione Antimafia Violante che si era preoccupato che a Riina, arrestato nella primavera del '93 non fosse stato applicato l'articolo 43 bis. Quest'ultimo, interrogato (come persona informata dei fatti nel Borsellino quater) ha dichiarato che ha conosciuto l'ex ufficiale dei ROS a Torino quando era giudice istruttore a Torino mentre Gian Carlo Caselli lavorava con i carabinieri di Dalla Chiesa ma Fabio Repici, della parte civile di Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, ha fatto notare che Mori in quegli anni non lavorava a Torino come carabiniere. Insomma, ritornando all'impressione di un osservatore interessato a una ricostruzione, il più somigliante possibile e realistica dell'accaduto, siamo ancora distanti dal possedere tutti gli elementi necessari per identificare i mandanti e gli esecutori delle più terribili stragi successe nell'Italia repubblicana.

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