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tranfaglia-nicola-webdi Nicola Tranfaglia - 15 luglio 2014
Sarebbe un errore seguire poco, o in maniera discontinua, le udienze del processo di Caltanisetta per le stragi di Capaci e di via d'Amelio. Certo ormai, a dispetto delle rievocazioni televisive e delle poche righe che si trovano in alcuni libri importanti sulla storia di Cosa Nostra o delle mafie "italiane", il ricordo di quegli episodi terribili o addirittura dei due giudici che hanno dato la vita, insieme con uomini e donne delle loro scorte, si è molto allontanato nel tempo e non sappiamo neppure se è arrivato in tempo alle generazioni più giovani dopo più di vent'anni.

D'altra parte, le testimonianze di Ilda Boccassini, oggi procuratore aggiunto a Milano o di Fausto Cardella, oggi procuratore dell'Aquila, consentono, per una sorta di storia che resta ancora da scrivere di quei delitti, di mettere a posto particolari importanti non soltanto riguardo ai colpevoli (ancora in troppa parte sconosciuti) ma anche sui meccanismi ancora ignoti che hanno presieduto a quei terribili complotti contro i due magistrati, profondamente diversi l'uno dall'altro ma capaci di comunicare in maniera straordinaria (come l'istruttoria del maxiprocesso fatta insieme dimostrò in maniera compiuta) che ancora oggi costituiscono il simbolo di quella parte di Italia ancora sconfitta ma che esiste e lotta per costruire un Paese giusto e moderno.
Ritornando a quel processo, mi hanno colpito due dettagli di cui vale la pena ancora parlare.

1) Il primo è quello più noto. Riguarda il falso pentito Scarantino che si presenta come l'uomo che aveva rubato l'auto diventata poi l'auto bomba che scoppia in via d'Amelio e compie la strage dinanzi alla casa della madre di Paolo Borsellino quando il giudice scende dall'auto per entrare nel portone. A questi si è aggiunto un altro mafioso, Salvatore Candura, arrestato già nel settembre 1992 e che soltanto dopo diciassette anni ha confessato di aver mentito. Né lui né Scarantino dicono qualcosa sugli autori di un depistaggio che include ben tre mafiosi e che è organizzato così bene da durare molti anni prima di esser scoperto. Oggi è questo l'elemento più importante e c'è da sperare che quando alle indagini seguirà il dibattimento in aula si possa capire chi furono gli autori del depistaggio, a chi erano legati, di quali complicità hanno potuto fruire per conservare per tanti anni la versione falsa del delitto. Certo emerge ancora una volta la figura dell'ex capo della Squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera di cui è ormai chiaro il ruolo "doppio" rivestito in molte storie di quegli anni ma mi pare che si possa dubitare che un uomo solo sia dietro a un'operazione così ampia e capace di durare tanto nel tempo.

2) Il secondo elemento non chiaro riguarda le dimissioni dell'ex commissario di polizia e quindi esperto informatico Gioacchino Genchi che, dopo aver lavorato per un certo tempo con la procura di Caltanissetta (ma anche con altre procure italiane) per le due stragi di Palermo nel maggio 1993 entra in conflitto con i magistrati e dà le dimissioni. Ancora oggi e sono passati ventuno anni, nessuno al di fuori di quella parte della magistratura che ebbe contatti con lui è in grado di capire fino in fondo perché si arrivò a quelle decisioni e le spiegazioni che ancora si danno - se è permesso - suscitano ancora qualche dubbio.

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