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di Nicola Tranfaglia - 4 giugno 2014
Nell'ultima settimana del processo per la strage di via d'Amelio che si svolge a Caltanissetta (il cosiddetto Borsellino quater) è stato ascoltato dai giudici il collaboratore di giustizia Santo Di Matteo, padre di Giuseppe, il bambino rapito da Cosa Nostra e sciolto nell'acido dopo due anni di prigionia.
l pentito ha detto di nuovo di aver preso parte alle fasi preparatorie dell'attentato contro il giudice Giovanni Falcone (23 maggio 1992 e di aver fornito ai mafiosi fratelli Graviano i telecomandi che sarebbero stati poi utilizzati per far saltare l'autobomba contenuta nella 126 che cinquantasette giorni dopo uccise in via D'Amelio il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta. "Un paio di telecomandi-ha raccontato l'ex boss del quartiere Altofonte-li aveva acquistati Giovanni Brusca in un negozio di giocattoli e altri due li portò invece Rampulla. Questi telecomandi li avevo io in custodia ma Antonino Gioè venne a chiedermi qualche giorno dopo di darli ai fratelli Graviano (capi tra l'altro anche del mafioso Spatuzza che si sarebbe rivelato l'uomo che al posto di Scarantino, presto sbugiardato, rubò l'auto 126 con la bomba per l'attentato). Di Matteo ha dichiarato che non sapeva che servivano per quello, cercando di allontanare da se responsabilità troppo pesanti. In realtà la collaborazione di Di Matteo non si è rivelata per nulla facile e perciò i giudici inquirenti  di Caltanissetta hanno voluto sentire di nuovo il pentito su vari aspetti di quella terribile strage.

Un altro collaboratore di giustizia, Giambattista Ferrante, uomo d'onore del quartiere San Lorenzo, fortemente legato a Salvatore Biondino, è stato ascoltato insieme con i pentiti Sinacori, Drago e Grigoli. Anche lui -tanto per cambiare- ha escluso di sapere che l'attentato era contro il giudice palermitano: "Facemmo delle simulazioni  per poter provare, quindici giorni prima dell'attentato,   i telecomandi che dovevano far funzionare l'autobomba di via D'Amelio e li provammo vicino alla sede della Regione Siciliana. Ha parlato infine del compito di telefonare, proprio nel giorno dell'attentato, di telefonare a un numero di cellulare per segnalare l'arrivo in via D'Amelio del corteo delle auto di scorta del giudice Borsellino. Anche i capimafia di Brancaccio, i fratelli Graviano non volevano in nessun modo a sapere del loro coinvolgimento nella strage, convinti probabilmente. Ferrante ha ribadito che in quell'occasione i suoi capi erano così sicuri del fatto loro da "dire che che "tra un paio d'anni andremo tutti a casa e che le cose sarebbero cambiate”. Ferrante ha ricordato che, parlando delle stragi e dell'arresto di questo Pietro Scotto, “si commentò che si stava prendendo una direzione sbagliata nelle indagini sulla 126".
Da parte sua il collaboratore Vincenzo Sinacori  ha ricordato una riunione a Castelvetrano in cui si decisero gli attentati contro Falcone, il ministro Martelli e il presentatore televisivo Maurizio Costanzo, da farsi a Roma e non in Sicilia, in modo che l'eco sui media e in campo politico fosse maggiore. Del vertice dei mafiosi fecero parte Salvatore Riina, Matteo Messina Denaro, Giuseppe Graviano, Mariano Agate ed altri.  Sulle due grandi stragi dell'estate-autunno del 1993 c'era nel vertice mafioso alcuni- Bernardo Provenzano, Raffaele Ganci e Giovanni Brusca. Questi avevano paura che il cerchio si potesse stringere troppo e così andavano andammo nel continente.
Il collaboratore Salvatore Grigoli ha parlato dei contatti tra i fratelli Graviano e  Marcello Dell'Utri. Tra il '93 e il '94, il boss Nino Mangano gli ha detto che, nel periodo tra il '93 e il 94,che i Graviano avevano in mano un personaggio e che all'epoca quel nome non mi diceva nulla ma ora mi dice qualcosa perchè si tratta di Dell'Utri. Secondo lo stesso Grigoli, le bombe di Milano, Roma e Firenze sarebbero dovuto servire a far capire allo Stato che doveva cedere. Ma il pentito ha detto di non sapere chi fossero quelli che decidevano le stragi né chi fossero gli intermediari. Ha parlato infine di rapporti tra Cosa Nostra e la Falange Armata.
Dalla deposizione di Leonardo Messina risultano con sicurezza rapporti tra Cosa Nostra e i servizi segreti italiani e nel contempo il Ministero delle Finanze ha detto che il sommerso in Italia vale il 21 per cento del PIL. A tirar qualche provvisoria conclusione, si può dire che per ora i misteri di via d'Amelio sono lontani dallo svelarsi ma anche che la trattativa tra mafia e Stato, come scrissi proprio in quegli su un quotidiano vicino al PCI, è un fatto storico ormai accertato.

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Ferrante: "Provammo noi i telecomandi per l'attentato di Borsellino"

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