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europa-contraddizionidi Nicola Tranfaglia - 26 maggio 2014
Una grave contraddizione è emersa dalle recenti elezioni europee e anche alcuni giornali del vecchio continente se ne sono finalmente accorti. Da una parte, le urne hanno rivelato l'eclissi del partiti tradizionali e dell'establishment europeo. Proprio quando i cittadini sono stati chiamati per la prima volta a designare il presidente della commissione europea, hanno votato in percentuali - mai toccate prima - partiti e movimenti che si possono definire "populisti" e che quindi sostengono il ritorno alle monete nazionali e difendono la sovranità di ogni Stato dell'Unione. Invece in Italia, per molti aspetti in condizioni tragiche, ha vinto un leader, che ama, più di tutti gli altri nel suo partito, le innovazioni anche superficiali del nostro tempo. A Renzi, come si è visto nelle sue numerose apparizioni televisive dell'ultima campagna elettorale, piacciono slide e classifiche di ogni genere. L'attuale segretario del PD e presidente del Consiglio avanza le sue proposte politiche come se fossero merci, sia pure ottime, da vendere all'elettore-cliente che si è accostato per la prima volta alla politica.
In tutto il vecchio continente, si vive peraltro - e senza dubbio - un tempo che segnala un forte distacco tra la classe politica e il resto della società.  
Nel Regno Unito l'Ukip triplica il tre per cento rispetto alle elezioni politiche del 2010, umiliando sia i conservatori che i laburisti. Il Front National passa dai sei per cento delle scorse elezioni per il parlamento dell'Unione al venticinque per cento, diventando il primo partito della Francia.

Né la bassa affluenza (a Londra ha votato meno di un terzo degli elettori, a Parigi meno della metà, sia pure in crescita leggera rispetto al 2009).
Il risultato delle elezioni di ieri consente insomma di ricavare una lezione abbastanza chiara dal comportamento degli elettori europei. L'Europa ha sbagliato la risposta alla grande crisi che ci ha messo in difficoltà negli ultimi sei-sette anni. Se tutto il mondo ha reagito al crollo finanziario e industriale con una politica di espansione e di investimenti, invece il vecchio continente a guida tedesca ha seguito la linea dei tagli e del rigore, impoverendo tutti i paesi, se si esclude la Germania di Angela Merkel.
Ritornando al nostro paese, possiamo dimenticare che il nostro Paese sta perdendo posizioni nella complessiva ricchezza complessiva (prodotto nazionale lordo) e addirittura va indietro anche in termini assoluti. Lo Stato imprenditore è a sua volta degenerato, sempre più catturato da obbiettivi extra aziendali rispetto ai suoi inizi avventurosi negli anni Trenta;
anche la nazionalizzazione dell'energia elettrica - ministro Guido Carli - si è rivelata disastrosa per non parlare della vera e propria epidemia delle grandi aziende familiari guidate a volte da personaggi non del tutto capaci. Per completare il discorso, non si può peraltro dimenticare l'incapacità della classe politica di governare il conflitto sociale dentro e fuori la fabbrica, un conflitto - è il caso di ricordarlo - inevitabile in un Paese nel quale lo sviluppo economico degli anni cinquanta-sessanta aveva costretto diciassette milioni di persone a cambiar residenza e a trasferirsi in città. Le responsabilità di quel che avvenne non sono soltanto di una parte delle classi dirigenti e delle forze politiche. I comunisti furono troppo lenti a cambiare in un paese investito da un progresso rapido e impetuoso e il sindacato non seppe confrontarsi con le necessarie "compatibilità" economiche e gli imprenditori, da parte loro, portarono i loro soldi all'estero sì da non poter in nessun modo aspirare a definirsi "classe generale". Negli anni Ottanta, i nuovi imprenditori vennero definiti addirittura "condottieri" ma furono a loro volta in gran parte coinvolti nelle inchieste giudiziarie del decennio successivo. Emersero allora - come molti ricorderanno - le piccole e medie imprese e ci diedero l'illusione di esser diventati invulnerabili come portatori di un nuovo modo di produrre e progredire.
Ma gli ultimi cambiamenti nell'economia internazionale, e la globalizzazione, in particolare, ha spento anche questa illusione. E dall'Italia le imprese multinazionali se ne vanno per le inefficienze della nostra burocrazia, per la presenza devastante delle associazioni mafiose, ormai presenti in tutto il territorio nazionale, per la cura molto scarsa delle infrastrutture e, in particolare delle nostre reti di trasporto.
Insomma, per ritornare alla contraddizione segnalata all'inizio dell'articolo, viviamo un periodo storico nel quale l'Italia sembra in minor pericolo per la crescita dei populismi (al contrario il maggiore, quello rappresentato dal populismo autoritario di Silvio Berlusconi ha segnato un vistoso regresso elettorale) ma, come tutti sappiamo, è in una condizione molto difficile sul piano economico come su quello civile.
Di qui l'importanza acquisita dal governo Renzi che - dobbiamo ricordarlo - non è un centro-sinistra ma un governo di larghe intese con la componente del Nuovo Centro  Destra di Angiolino Alfano, nato da una costola del populismo berlusconiano.
Dopo i risultati delle Europee, dobbiamo augurarci che Renzi non fallisca nel suo compito né a livello italiano né a quello europeo e porti l'Italia fuori dalla difficile situazione in cui purtroppo ancora si trova.

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