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chiuso-per-fallimentodi Nicola Tranfaglia - 6 aprile 2014
Quello dei beni confiscati dalle mafie che infestano il nostro paese da molte decine di anni è un vero affare. Se si tiene conto che il numero dei beni confiscati è oggi di 12,946, cifra in continua evoluzione, di cui 1.708 aziende e che di questi, circa il 42,60% pari a 5,515 è in Sicilia, particolarmente in provincia di Palermo. Si tratta di un patrimonio da alcuni stimato approssivativamente in due miliardi di euro ma il giornale La Repubblica (22 novembre 2012) parla di 22 miliardi di euro, il Giornale di Sicilia (6 febbraio 20149 di 30 miliardi, di cui l'80 per cento nelle mani delle banche. Di queste aziende sono 35 sono in attivo e solo il 2 per cento genera fatturati. E' un'immenso fatturato che comprende supermercati, ristoranti, residence, villaggi turistici, distributori di benzina, fabbriche, impianti minerari, fattorie, serre, allevamenti di polli, agriturismi, cantine, discoteche, gelaterie, società immobiliari, centri sportivi, pescherecci, stabilimenti balneari e anche castelli. Un ritratto somigliante, verrebbe da dire, dei settori in cui entrano le tre fortissime associazioni mafiose e dei beni predati alla società che rispetta le leggi. Peccato, dobbiamo aggiungere che questi esercizi sono quasi tutti falliti.

Quali sono le ragioni del fallimento gigantesco che caratterizza questo settore delicato e importante della legge sulla confisca dei beni di mafia? Innanzi tutto i tempi molto lunghi che passano dal sequestro alla confisca. Di solito, da parte del tribunale competente, si fa ricorso, da parte del tribunale competente, alla nomina di un amministratore giudiziario che si tratta per lo più di titolari di studi legali o commercialistici che sono in buoni rapporti con il magistrato incaricato di fare le nomine. Per non parlare di debiti e mutui accesi con le banche, che lo stato non si premura di rimborsare e che quindi finiscono con il lasciare il bene nelle mani delle banche stesse. Il 90 per cento delle aziende sotto sequestro è arrivato al fallimento, alla rovina di parecchie famiglie, alla crisi dell'indotto. La dichiarazione di fallimento e di messa in liquidazione dei beni confiscati è per gli amministratori che non sono in grado di occuparsene in maniera adeguata è la strada più facile perchè li esonera dall'obbligo della rendicontazione e consente loro di "svendere" mezzi, attrezzature, materiali anche con fatturazioni non conformi al valore reale dei beni, girando spesso gli stessi beni ad aziende collaterale legate ad aziende collaterali legate agli stessi agli stessi amministratori giudiziari. Il prefetto Caruso, al quale è stata affidata la gestione dell'Agenzia dei beni confiscati alla mafia che ha sede a Reggio Calabria, nell'audizione  dinanzi alla Commissione Antimafia il 18 gennaio 2012, ha ricordato che a volte passano anche dieci anni dal momento del sequestro del bene a quello della sua confisca e ha dichiarato con chiarezza che "fino ad ora i beni confiscati sono serviti, in via quasi esclusiva, ad assicurare gli stipendi gli emolumenti agli amministratori giudiziari, perchè allo Stato è arrivato poco o niente."
Di qui come succede quasi sempre nel nostro Paese, si è acceso uno scontro che ha visto protagonisti alcuni politici che si sono a lungo occupati e ancora si occupano del fenomeno mafioso come la deputata europea Sonia Alfano e l'onorevole Davide Mattiello. La presidente della Commissione Antimafia Bindi ha preannunciato interventi sulla questione e il prefetto Caruso è stato rimosso mentre l'Associazione Nazionale Magistrati si è schierata contro Caruso. Una commissione nominata dal governo Letta di cui hanno fatto parte alcuni magistrati come Grattoni, Cantone e Rosi hanno scritto una relazione di 183 pagine in cui mettono in luce le criticità presenti in tema di gestione dei beni confiscati e propongono soluzioni sull'ampliamento del ruolo e mezzi dell'Agenzia, affiancando figure manageriali per la gestione delle aziende, dall'anticipo della verifica dei crediti alla regolamentazione degli amministratori giudiziari. Ma tra tutte le proposte di cui si è parlato finora a me pare (come al giornalista siciliano Salvo Vitale che sull'argomento ha scritto un'inchiesta documentata e attendibile venga dalla redazione della piccola tv Telejato di cui riporto alla fine di questa nota i punti essenziali. Questi sono:
"Consentire l'immediato pagamento dei creditori dell'azienda sin dal momento della confisca, per evitare di causare il fallimento di aziende fornitrici legate all'indotto su cui l'azienda confiscata opera; legare il momento della confisca a quello dell'iter giudiziario, nel senso che non si può procedere alla confisca di un bene, se non è dimostrata, almeno nel suo primo grado di giudizio, la sua provenienza mafiosa; non consentire più di un incarico agli amministratori giudiziari; svincolare l'arbitrio delle nomine dalle competenze di un solo magistrato e allargarne le facoltà a tutti i magistrati del pool antimafia." Più altri tre o quattro accorgimenti per limitare i poteri degli amministratori incompetenti o di un unico magistrato. 

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