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democraziadi Nicola Tranfaglia - 29 marzo 2014
L'Economist è un sobrio settimanale inglese che non brilla per progressimo ma è fatto con serietà e andrebbe letto più spesso e meglio di come gli italiani, i pochi che si interessano di economia e di politica, fanno. Ne ho avuta una prova ulteriore leggendo l'ultimo numero uscito che contiene un interessante articolo sulla crisi della democrazia, presente in Occidente come in Oriente, al Nord come al Sud e che sembra destinata a aggravarsi in maniera sempre più preoccupante.

E questo avviene, come ricordava oggi anche il presidente dell'ANPI, Carlo Smuraglia, partiti e movimenti che si ispirano al fascismo e all'autoritarismo si stanno affermando in tutta l'Europa e rischiano di porre una forte ipoteca sulle prossime elezioni del 25 maggio 2014. A seguire il ragionamento che ha fatto l'articolarista del settimanale due sembrano gli elementi di maggior rilievo da cui partire: il primo è costituito dalle dimensioni e dai compiti sempre più ampi e complessi assunti dagli Stati nazionali europei e dalla inadeguatezza delle classi dirigenti contemporanea di rispondere alle attese e alle esigenze delle popolazioni.
Gli esempi portati nell'inchiesta sembrano convincenti: le promesse non mantenute dai politici e le menzogne che snocciolano davanti ai propri governati, i costi abnormi della politica; la sordità di fronte a richieste e domande che vengono spesso da centinaia di migliaia di persone che non sono inserite nelle assemblee e negli organismi che contano ma portano avanti quesiti validi.
Di qui una crescene disaffezione verso la politica che rischia di creare problemi sempre più grandi a chi deve governare e assumere le decisioni importanti nei vari paesi.
L'Economist sostiene che problemi di fondo come quelli del livello locale molto sentito dai non politici e la globalizzazione economica, di cui tutti dobbiamo prendere atto, sono ostacoli sempre più grandi allo sviluppo e alla realizzazione della democrazia e rischiano perciò di favorire ancora una volta i populismi e i movimenti guidati da un capo carismatico spesso anche molto conservatore.
Di qui, per il settimanale inglese, il pericolo crescente di andare avanti come se nulla fosse e non prender atto dell'urgenza di misure radicali che ridiano fiducia ai cittadini e li facciano sentire partecipi di un destino che non è già scritto e richiede, al contrario, uno sforzo non da poco per uscire dallo stallo in cui siamo e dai pericoli che ci sovrastano.
Di fronte a una simile diagnosi che a me non pare sbagliata, le indicazioni che il settimanale ci offre possono apparire (e in parte lo sono) troppo elementari e vaghe: come si fa a governare rispettando localismo e globalizzazione? Sostituire ai vizi evidenti degli attuali gruppi dirigenti le virtù di una nuova classe politica che ha molta difficoltà ad emergere in una contingenza tutt'altro che facile? Sono interrogativi non facili da risolvere ma forse è proprio in questa direzione che bisognerebbe andare nei prossimi tempi.

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