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caselli-gian-carlo-web2Dagli inviati di Articolotre* -18 maggio 2013
Procuratore capo di Torino, Gian Carlo Caselli non ha certo bisogno di presentazioni. Da sempre in prima linea nella lotta alla mafia, grazie al suo contributo è stato possibile portare a compimento operazioni ormai entrate nella storia. Partendo da quando si occupava di terrorismo, passando dagli arresti celebri di esponenti di primo piano di Cosa Nostra Gaspare Spatuzza, Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca, quando era a capo della Procura di Palermo, fino alla recente operazione Minotauro, la sua carriera è stata dedicata alla ricerca della legalità e giustizia.
Recentemente il procuratore Teresi ha parlato di un ritorno all'atmosfera che vigeva nel '92, quando cioè le istituzioni hanno abbandonato coloro che combattevano per la mafia. Non in ultimo, ora, l'esempio di Nino di Matteo, come si pone al riguardo?

Da tempo io non mi occupo più in presa diretta di queste vicende quindi non posso che prendere atto di ciò che ha detto Teresi. Grande è la stima che ho nei suoi confronti e le sue parole certamente meritano il massimo dell'attenzione e della riflessione, ma di più non sono in grado di dire.

Recentemente sono state mosse accuse a organi di stampa, secondo cui la trattazione di argomenti di mafia rischia di configurarsi non come strumento di denuncia contro la criminalità organizzata, bensì come strumento di visibilità per i mafiosi. Cosa ne pensa al riguardo? Non rischia di diventare un silenzio omertoso?
Guardi, questa tesi per cui non si può parlare di mafia è semplicemente, per usare un eufemismo, ridicola. C'è un grosso problema per quanto riguarda il nostro Paese, ed è una democrazia dimezzata da una forte e persistente presenza di un potere criminale capace di condizionare la vita pubblica, politica e sociale. Non occuparsi di questo problema, vuol dire suicidarsi letteralmente. Altro che non parlarne, bisogna parlarne per cercare di migliorare la qualità della nostra democrazia.

Il pentitismo è un fenomeno che negli anni passati ha coinvolto un gran numero di criminali. Come si pone un magistrato di fronte a esso e quanto contribuisce nella lotta alla mafia?
La collaborazione di chi conosce i segreti della mafia è sempre stata e continua ad essere indispensabile se si vuole fare un contrasto efficace, incisivo, al crimine organizzato mafioso. Senza qualcuno che ti racconti i segreti di mafia si gira intorno e non si scava in profondità, con la possibilità conseguente di disarticolare questi fenomeni estremamente pericolosi. C'è stata una stagione formidabile, una vera e propria slavina di pentiti subito dopo le stragi di Capaci e di via D'Amelio, la stagione che ho vissuto anch'io come capo della Procura di Palermo. Sembrava fatta, sembrava che si fosse vicini al traguardo della sconfitta definitiva, o quanto meno di un fortissimo ridimensionamento di Cosa Nostra. Poi, invece, qualcosa si è inceppato, anche perché i pentiti sono stati visti come, non collaboratori indispensabili per fare chiarezza, per avvicinarsi alle verità, ma come pericolosi, anche tutte le volte che hanno cominciato a parlare di persone che appartengono a certi livelli non abituati ad essere sottoposti ad indagini. E allora ecco che i pentiti sono diventati un problema,soprattutto sono diventati un problema i magistrati che gestivano correttamente, facendo il loro dovere, i pentiti stessi. Così sul banco degli imputati sono finiti pentiti e magistrati, le cose si sono complicate e questa complicazione è continuata anche successivamente.

*Gianfranco Broun
Marta Foscale
Gea Ceccarelli
Valeria Gargiulo
Giovanni Ferrarelli

Tratto da: 
articolotre.com

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