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scarpinato-roberto-web2Intervento di Roberto Scarpinato in occasione del suo insediamento nell’ufficio di Procuratore Generale di Palermo il 12 aprile 2013.
Vi sono momenti nella vita di un uomo  che, per la loro  particolare valenza simbolica, agiscono come catalizzatori della propria biografia personale.
In simili frangenti – come oggi a me accade - la macchina della memoria, viaggiando a ritroso nel tempo, riannoda i fili del presente a  quelli del passato, tessendo in un’unica trama  il senso del proprio vissuto.
Ho fatto riferimento al senso del mio vissuto perché questo Palazzo di Giustizia per me, come credo per molti altri, non è  stato solo un insieme di uffici  nei quali viene espletato il servizio giustizia.
Non custodisce solo ricordi  legati alla mia personale esperienza lavorativa di magistrato.

L’ingresso in questo luogo nel lontano 1988, ha in realtà tracciato  una netta linea di cesura nella mia esistenza globale di uomo, segnando un prima e un dopo.
E il “dopo” ha completamente  reimpaginato su nuove basi tutta la mia vita.
Certamente non ne farei menzione oggi in una pubblica  cerimonia, in occasione del mio insediamento nel nuovo ufficio di Procuratore Generale, se tutto ciò si fosse consumato solo nel piccolo ed  irrilevante cerchio della mia privata esperienza personale,  e non fosse invece declinazione di una più vasta e comune esperienza collettiva.

Una esperienza  condivisa - seppure con intensità variamente graduata -  da tanti che, con ruoli diversi, hanno attraversato la storia di questo Palazzo nell’ultimo quarto di secolo.
Meglio sarebbe dire che ne sono stati “attraversati” e, talora travolti.
Il vento della storia, della grande storia della Nazione, ha infatti attraversato, talora  in modo impetuoso questo Palazzo, inghiottendo nei suoi vorticosi turbini  le vite di alcuni  che oggi non sono più tra noi, e segnando in modo indelebile le vite di altri.
Un vento che si è mosso in una duplice direzione: in entrata e, come dirò tra breve, anche in uscita.
Si è mosso in entrata, perché qui, sono stati celebrati  processi che nell’assolvere alla finalità istituzionale propria della giurisdizione, di accertare responsabilità penali individuali per specifici fatti reato, hanno anche consentito di fare luce su tante tragiche vicende che nella loro ininterrotta sequenza temporale hanno scandito la  storia della Nazione.
E si tratta di una sequenza così lunga che non è possibile, per ragioni di sintesi, stilarne un completo inventario.
Dai processi per gli omicidi del Presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella, del segretario provinciale della D.C. Michele Reina, del segretario regionale del P.C.I. Pio La Torre, del Prefetto Carlo Alberto Dalla  Chiesa, alla vicenda Sindona, e, via elencando, sino ai  processi che in anni più recenti hanno consentito di accertare con sentenze definitive  responsabilità penali per collusione con la criminalità mafiosa di esponenti di vertice di  apparati istituzionali nazionali e regionali, del mondo politico ed economico.

Vicende di estrema complessità, che, quasi come tessere di un unico mosaico, nel loro progressivo incastrarsi temporale ricompongono capitoli importanti della  storia del paese.
A fronte del susseguirsi di processi di tal fatta, che giungono sino alla più recente attualità, qualcuno ha talora esternato in modo critico il dubbio che a Palermo  la giurisdizione quasi volesse  processare la storia.
Un dubbio privo di fondamento, giacché, come ho già accennato, in tutte le sue componenti la magistratura palermitana si è  sempre rigorosamente mantenuta nei  limiti, propri della giurisdizione,  di indagini e di ricostruzioni probatorie esclusivamente finalizzate ad accertare specifiche e individuali responsabilità penali.
Se il vento della storia ha attraversato in questo luogo i processi, non è certo per fattori soggettivi, ascrivibili a volontà dei singoli, ma piuttosto per  ragioni oggettive determinate da alcune peculiari dinamiche interne  alla storia nazionale.        
Una storia che presenta connotazioni di anomalia, meritevoli di riflessione,  rispetto a quella di tutti altri stati europei di democrazia avanzata, laddove si consideri che nessuna storia nazionale europea è segnata, così come quella italiana, da una sequenza così lunga di stragi, di omicidi eccellenti, di atti di violenza politica e mafiosa.
Un susseguirsi ininterrotto di sanguinarie vicende criminali  che, a far data dalla strage di Portella delle Ginestre che nel maggio del 1947 inaugura tragicamente l’incipit della storia  repubblicana, giunge sino alle stragi del 1992 e del 1993 che hanno segnato  la fine convulsa della prima Repubblica.
Vicende tutte dalle trame complesse che hanno  portato sulla scena pubblica dei processi quella parte della storia che si è svolta nel fuori scena.
In quel fuori scena che ha visto talora convergere, talora sovrapporsi,  e spesso  intrecciarsi in un viluppo inestricabile, interessi di soggetti interni alla criminalità organizzata e interessi di soggetti esterni, lungo una linea di confine mobile ed oscillante tra il dentro ed il  fuori del sistema di potere mafioso.              
Non sono dunque i processi che hanno cavalcato la storia, ma, al contrario, è la storia che nel suo tracimare anche in modalità violente e criminali si è riversata talora nei processi, instaurati e celebrati solo per necessità di giustizia in ossequio  al dettato della  nostra Costituzione che  con l’art. 112 impone al  Pubblico Ministero l’obbligo di esercitare l’azione penale, e con l’art. 101 statuisce che “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”.
Quell’avverbio  “soltanto” inserito nel testo costituzionale, non è un obiter dictum del Costituente,  non è riducibile ad una mera  ridondanza linguistica.
Quell’avverbio “soltanto”  esprime la  ferma volontà dei padri Costituenti di archiviare definitivamente la triste stagione sperimentata durante il regime fascista, e prima ancora durante  lo stato monarchico - liberale, di una giustizia ripetutamente subordinata alle ragioni della forza, sia che tali  ragioni assumessero la forma degli equilibri macro politici contingenti, sia che venissero nobilitate da altre necessità superiori.
      
Il vento della storia ha attraversato  i processi anche perché la violenza che ha seminato tanto terrore e morti, non si è certo arrestata  dinanzi al Palazzo di Giustizia, come dinanzi all’invalicabile confine di un magico altrove, ma ne ha invece ripetutamente varcato la soglia, tentando di piegare la legge dello Stato e la dinamica dei processi alle ragioni della forza e della prepotenza.
Ed anche in questo caso, non è possibile stilare un compiuto inventario, tanto  numerose sono le vicende  nelle  quali si è tentato di condizionare l’iter dei processi intimidendo o uccidendo testimoni, consulenti tecnici, parenti di collaboratori di giustizia, esponenti delle Forze di Polizia, magistrati, facendo sparire documenti essenziali, ricorrendo ad altre sotterranee ed insidiose strategie, e, infine, alimentando campagne di delegittimazione finalizzare a screditare e isolare magistrati impegnati nelle indagini e nei processi.
La lezione della storia dimostra dunque come nella  nostra realtà l’accertamento della verità non sia stato – così come avviene in luoghi più fortunati -  solo   il  distillato finale di una asettica macchina processuale, sapientemente azionata da tecnici del diritto – magistrati e avvocati - che si muovono in un ambiente  anaerobico,  impermeabile all’esercizio della violenza praticata da potenti  sistemi criminali.
L’iter di tanti, di troppi processi si è piuttosto rivelato un accidentato percorso disseminato di lutti e di sofferenze.
 
Al dolore manifesto conseguente ai lutti dei tanti  uccisi per impedire l’accertamento della verità processuale, va sommata la sofferenza, talora segreta e spesso dimenticata, di tanti cittadini comuni che per non venire meno al dovere di contribuire all’accertamento della verità, hanno dovuto superare se stessi, imparando  a convivere a lungo con l’idea della propria possibile morte: una morte minacciata per indurli a tacere, una morte evocata dal ricordo di tutti coloro che in precedenza avevano pagato con la vita il rifiuto di subire e di tacere.
Molti  non hanno retto a questa pressione ed hanno capitolato, arretrando.
Taluni  sono persino giunti al punto di togliersi la vita, perché si sentivano quasi schiacciati sotto il peso di una storia troppo grande per le loro forze.
Penso alla tragica vicenda  di Rita Atria, una ragazza di diciassette anni divenuta collaboratrice di giustizia con Paolo Borsellino, la quale una settimana dopo la strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992, si suicidò lanciandosi dal settimo piano del Palazzo dove viveva in segreto, lasciando nel suo diario queste parole:
«Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c'è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarci. Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta»
Parole semplici e drammatiche che andrebbero meditate anche e soprattutto dai tanti che in pubblico predicano  la cultura della legalità,  e poi nel privato ne tradiscono i più elementari fondamenti,  ponendo in essere comportamenti incompatibili.      

Come accennavo all’inizio, la storia della Nazione ha attraversato questo Palazzo in una duplice direzione.
Non solo in entrata, secondo le modalità alle quali ho fatto riferimento, ma anche in uscita.
In questo luogo infatti agli albori degli anni Ottanta del XX° secolo, è iniziata la lunga, travagliata e solitaria marcia di alcuni pionieri dell’antimafia che facendo breccia in un muro di  resistenze e arretratezze culturali  interne anche  a questo  Palazzo di Giustizia,  e misurandosi con formidabili forze criminali esterne, hanno dato avvio ad una stagione straordinaria non solo della storia giudiziaria,  ma dell’intera vita nazionale.  
Essi infatti  non si sono limitati a mettere a punto nuove  metodologie di indagine e innovative organizzazioni del lavoro  giudiziario, che hanno consentito di pervenire a risultati processuali prima impensabili, demolendo così il mito della impunibilità di un sistema di potere mafioso, sino ad allora  alimentato da una interminabile serie di assoluzioni per insufficienza di prove, collezionate nei decenni precedenti.
Essi  hanno anche e soprattutto gettato i semi da cui nel corso del  tempo è germogliata una vera e propria rivoluzione culturale, un salto quantico dell’etica collettiva, che ha travalicato gli angusti confini di questo Palazzo, del ristretto mondo giudiziario, e si è fatta epopea nazionale, trasformando nell’immaginario internazionale la Palermo capitale della mafia nella Palermo capitale dell’antimafia, e  luogo di riscossa della credibilità dello Stato italiano.

Palermo, prima percepita quasi come l’impero del male, si è così trasformata sotto gli occhi del mondo in un incessante  laboratorio della storia dove la posta in gioco non  era  solo   la vita e la morte di coloro – magistrati, esponenti delle Forze di Polizia - che  si esponevano  in prima fila per la difesa della legalità democratica,  cadendo   falcidiati in una terribile staffetta di sangue.
La posta in gioco era anche il progressivo coinvolgimento in quell’impresa di un intero popolo  che,  emancipandosi progressivamente da una secolare passività e  rassegnazione fatalistica all’esistente,  veniva  chiamato a raccolta dall’esempio di quelle avanguardie  per compiere lo sforzo comune di  rifondare un’etica collettiva, un senso dello Stato a lungo smarrito, a partire proprio da Palermo, da quella Sicilia che Leonardo Sciascia aveva intuito essere non già periferia, ma  piuttosto metafora, cartina di tornasole del divenire dell’intero paese.
Il grande merito di questi pionieri non è stato dunque solo quello  - che sempre si ricorda nelle ricorrenze ufficiali -  di avere segnato  una svolta epocale nella risposta giudiziaria alla criminalità mafiosa, ma anche e soprattutto di avere rifondato la credibilità dello Stato in un  paese nel quale lo Stato sino ad allora aveva purtroppo goduto di scarsa considerazione,  perché per troppo  tempo agli occhi dei cittadini era stato indebitamente identificato  con i  volti impresentabili di tanti esponenti della  nomenclatura del potere del tempo,  talora culturalmente contigui al sistema di potere mafioso, talora a vario titolo conniventi, talora più semplicemente tolleranti o indifferenti.

Una identificazione negativa che aveva alimentato quasi una sindrome di irredimibile orfanezza istituzionale, icasticamente espressa nella frase vergata a mano da un ignoto cittadino su un cartello deposto nel luogo della strage di Via Isidoro Carini,  subito dopo l’eccidio in data 3 settembre 1982   del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, della  moglie Emanuela Setti Carraro e dell’agente  Domenico Russo
Su quel cartello era stato scritto: “Qui è morta la speranza dei palermitani onesti”.  
Se la speranza non morì,  si deve al fatto che – come ho accennato - proprio da questo Palazzo,  propagandosi poi ad altri Palazzi è partita nella seconda metà degli anni Ottanta una svolta culturale che nel rifondare la credibilità di una legge uguale per tutti,  metteva in circolo nella collettività la speranza e la voglia di dare inizio ad una nuova possibile storia comune.
Lo Stato infatti  non si manifestava più solo con le sembianze  di personaggi che, per vari motivi,  non apparivano degni della pubblica fiducia.
Nell’immaginario collettivo il volto  dello Stato si andava lentamente  ricomponendo,   assumendo – tessera dopo tessera – il volto di altri uomini,  simbolo   di un nuovo modo di essere dello Stato, nel quale appariva finalmente possibile identificarsi: i volti di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino,  di Rocco Chinnici, di Rosario Livatino, figure  di sintesi di tanti altri volti e nomi che oggi mi spiace non potere tutti ricordare – Gaetano Costa, Gian Giacomo Ciaccio Montalto, Antonino Saetta, Boris Giuliano, Ninni Cassarà, Giuseppe Montana, Calogero Zucchetto, il capitano dei Carabinieri  Mario D’Aleo, il capitano Emanuele Basile.

Proprio per questo motivo, quando nel 1992 le stragi di Capaci e di  via D’Amelio sembrarono poter porre fine per sempre a quella breve primavera, che, muovendo dal mondo della giustizia,  aveva fatto da volano ad altre primavere, tra cui  quelle del rinnovamento politico  dell’amministrazione comunale di Palermo e dello sviluppo di una attiva antimafia sociale.
Quando sembrò che il paese potesse ripiombare  nell’incubo del suo passato, di una storia eternamente destinata a ripetersi sempre uguale a se stessa, come una tragedia inceppata.
Quando persino Antonino Caponnetto, trattenendo a stento le lacrime, alla domanda di un cronista televisivo che gli chiedeva in modo interrogativo “Ma non c’è speranza per questa città?”, rispose “E’ tutto finito”.

Ecco – quando tutto ciò accadeva  - avvenne qualcosa che non aveva  precedenti  nella storia di questo paese.
Accadde che un intero popolo  straripando come un fiume in piena invase le piazze, le strade, le chiese, circondò questo  Palazzo di Giustizia, quasi a volerlo proteggere e quasi a volere dare forza ad uno Stato finalmente ritrovato e che in quel momento appariva quasi smarrito, disorientato.
Se mi è consentito rievocare una memoria  personale, ricordo che  a vedere quella folla sterminata  dalle finestre di questo Palazzo, a vedere  sfilare migliaia di persone commosse e addolorate dinanzi alle bare esposte in questo atrio,  ci rendemmo conto che i nostri caduti non erano affatto morti.
Che si erano fatti lievito e anima  di una possente storia collettiva che nessuna violenza stragista, nessuna  intimidazione, poteva più fermare, costasse quel che costasse.
Per tutti questi motivi e per molti altri, la sensazione che oggi io provo non è solo  di insediarmi in un Ufficio,  ma quasi di insediarmi simbolicamente in una grande storia comune che tutti ci trascende: una storia  alla quale sono  onorato di avere avuto  la possibilità di partecipare, seppure in piccola parte.
L’ordinamento giudiziario impone  al Procuratore Generale presso la Corte di Appello numerosi e gravosi compiti tra i quali, a seguito dell’innovazione legislativa introdotta dall’art.  6 del Decreto legislativo n. 106 del 2006, quello di verificare il corretto e uniforme esercizio dell’ azione penale, il rispetto del giusto processo, nonché il puntuale esercizio da parte dei procuratori della Repubblica dei poteri di direzione, controllo e organizzazione degli uffici ai quali sono preposti, attivando le iniziative conseguenti.
Ma sul Procuratore Generale di Palermo io credo che, per quanto ho sin qui ricordato, gravi un onere supplementare.
Quello di farsi  custode e garante della preziosa eredità che abbiamo ricevuto, del patrimonio di  credibilità  costruito nel tempo con il sacrificio della vita dei nostri caduti e con la  silente dedizione al lavoro, con il senso dello Stato e talora con  il volontarismo personale, di tanti che nella diversità dei loro ruoli  - magistrati, personale ammnistrativo –  quell’eredità hanno raccolto e tramandato.
Sappia ciascun magistrato della requirente del distretto della Corte di Appello di Palermo che la porta del Procuratore Generale sarà sempre aperta al dialogo e al confronto, nel rispetto dei rispettivi ruoli, e che in me troverà un fermo  baluardo a garanzia della sua indipendenza e autonomia.  
Ma sappia anche che chiederò prima di tutti a me stesso e, quindi, a ciascuno di essi di compiere  ogni sforzo per sollevarsi all’altezza dell’insegnamento che ci è stato tramandato, e la cui continuità è affidata –in un potere diffuso e orizzontale come quello giudiziario -  in primo luogo   al senso di responsabilità e della misura,  alla sensibilità istituzionale e all’esempio  di ciascun magistrato.
L’eredità affidata alla nostra custodia appare oggi ancora più preziosa  perché in essa è insito  un insegnamento che, venendo  dal recente passato, appare in grado di parlare al presente dell’intero paese,  indicando la  direzione di marcia da seguire  per uscire dal declino attuale e per riappropriarci   del  futuro.
In una fase di transizione nella quale la  crescente sfiducia nei cittadini in una politica che non  appare in grado di  fermare il galoppante degrado civile ed  economico del paese, rischia di tramutarsi tout court  in sfiducia nello Stato, che ancora una volta, come già è avvenuto in passato, viene confuso con la classe politica.    
In una fase in cui il progressivo scollamento della società civile dallo Stato mina la coesione e la solidarietà collettiva, riconsegnando ciascuno alla propria solitudine che spesso si tramuta in disperazione, come dimostra lo stillicidio di suicidi di tanti lavoratori, imprenditori e cittadini sprofondati nella miseria, nella disoccupazione, privati del pane e della dignità sociale.
In una fase simile,  la lezione che viene da questo luogo-simbolo, da questa città sfida  è  che per dare avvio ad una nuova possibile primavera, che si tramuti in  riscossa sociale e in ripresa economica, non sono praticabili le facili e illusorie scorciatoie di alchimie politiche di corto respiro, né miracolistiche soluzioni di ingegneria costituzionale, né, infine,  deleghe deresponsabilizzanti a questo o a quel demiurgo, elevato a  salvatore di turno della patria.
L’unica via da percorrere oggi come ieri,  resta quella lunga, faticosa,  lastricata di impegno, di  sacrifici e, soprattutto, di buoni esempi, che ci è stata indicata dai nostri maestri, qui in questa terra, laboratorio politico e frontiera avanzata del paese.  
Si tratta di mettersi sulle spalle il destino della Nazione, ridistribuendo equamente tra tutti pesi e responsabilità, diritti e doveri.
Ed è una strada che per essere percorsa e portarci alla meta richiede che vengano prima di tutto ripristinate una serie di precondizioni imprescindibili che oggi per vari motivi appaiono in parte compromesse:   La credibilità dello  Stato e il decoro istituzionale,  il   principio di effettività  di una legge uguale per tutti,  il principio della responsabilità personale, quello della selezione per merito e non per grado di fedeltà e di  sudditanza a questo o a quel potentato.
Perché la legalità sia percepita come un valore non bastano aulici discorsi ed accorate esortazioni.

I francesi dicono che i figli non si educano con le parole ma con gli esempi concreti di vita.
Credo che lo stesso principio valga per il rapporto tra governanti e governati, tra Stato e cittadini.
Questo luogo ha dato alla Nazione alcuni uomini di Stato il cui esempio resta un faro che illumina la via.
A ciascuno di noi spetta il  compito di far si che quel faro continui a proiettare una luce vivida e che con il trascorrere del tempo e lo sbiadirsi  della memoria, non diventi  solo il  tenue bagliore di un passato glorioso da rievocare nostalgicamente  nelle cerimonie ufficiali.

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