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caselli-vignadi AMDuemila - 21 agosto 2012
Con una lettera inviata al direttore del Corriere della Sera, il procuratore di Torino Gian Carlo Caselli risponde ad un'intervista rilasciata allo stesso giornale (e pubblicata domenica) dall'ex procuratore capo di Firenze oggi in pensione, Pierluigi Vigna. Quest'ultimo, rispondendo alle domande del giornalista Dino Martirano, ha espresso alcune considerazioni sulla separazione tra la carriera politica e quella della magistratura. Per esprimere il proprio pensiero l'ex magistrato ha fornito come esempio di "magistratura che abbia degli obiettivi politici e che quindi agisca per favorire o sfavorire questa o quella forza politica", l'inchiesta Musotto, condotta dalla procura palermitana ai tempi di Caselli. Di seguito pubblichiamo sia l'intervista che la replica del procuratore di Torino.


"Vigna non mi attribuisca diffamanti obiettivi politici"
di Gian Carlo Caselli - 21 agosto 2012
Caro direttore, in un'intervista del 19 agosto l'ex collega Pier Luigi Vigna espone alcune considerazioni che a mio giudizio si inseriscono nella campagna di ingiustificati attacchi alla Procura di Palermo di oggi, passando per la denigrazione di quella da me diretta per quasi sette anni — a partire dal 1993 — quando dopo le stragi di Capaci e via d'Amelio chiesi io stesso di esservi trasferito da Torino. Sostiene Vigna che «deve esserci una netta separazione fra magistratura e politica... altrimenti si può pure diffondere l'idea che la magistratura abbia degli obiettivi politici e che quindi agisca per favorire o sfavorire questa o quella forza politica». Per dare un qualche peso a queste scontate banalità, Vigna si esibisce in un acrobatico esempio, anzi «caso emblematico»: l'inchiesta a carico del presidente della Provincia di Palermo Francesco Musotto, una di quelle che l'ufficio da me allora diretto ebbe a condurre. Forse Vigna non ricorda più che il lavoro di un pm si valuta soprattutto al momento del rinvio a giudizio, quando un giudice terzo stabilisce se quel lavoro è buono e sufficiente per un pubblico dibattimento. Che poi potrà essere di assoluzione o di condanna, com'è nella fisiologia del sistema democratico (solo nelle dittature l'accusa ha sempre ragione). In ogni caso, forse Vigna non sa che Francesco Musotto è stato giudicato insieme ad altre quattro persone, tutte condannate a pene anche gravi. Fra queste vi era il fratello, Cesare Musotto, accusato dello stesso reato di Francesco: aver ospitato nella villa di famiglia — abitata da ambedue — il pericoloso latitante Leoluca Bagarella. Cesare condannato e il fratello presidente assolto: niente da dire, se non che il secondo ha evidentemente beneficiato «ante litteram» di quella tesi difensiva («A mia insaputa») che avrà più tardi ancor più significative applicazioni. Comunque sia, prima di attribuirmi diffamanti obiettivi politici, voglia Vigna ricordare che il copyright non è certamente suo. Ero fascista quando mi occupavo di Brigate rosse e sono diventato comunista per la mia azione antimafia di Palermo (il primo a lanciarmi l'accusa fu un certo Riina: 24 maggio 1994, Corte d'assise di Reggio Calabria). Infine, tengo a ricordare che una certa maggioranza politica mi ha gratificato di una legge «contra personam» (poi dichiarata incostituzionale), che mi ha impedito di partecipare al concorso per la nomina del nuovo procuratore nazionale antimafia: dopo che il procuratore uscente — Vigna — aveva beneficiato, senza battere ciglio, di una leggina (prodromica a quella contro la mia persona) con cui quella stessa maggioranza ne aveva prorogato il mandato oltre la scadenza naturale, fino al compimento del 72° anno di età (quasi un regalo di compleanno).

Tratto da:Il Corriere della Sera


«Eccessi innegabili, servono norme più stringenti»
Vigna: magistrati mai in politica La distinzione dei ruoli sia netta
di Dino Martirano - 19 agosto 2012

Roma. C'è un doppio vizio d'origine che mina i rapporti tra politica e giustizia e per questo, ancora oggi, «ognuno dovrebbe ritrovare la consapevolezza del proprio ruolo» per ristabilire un po' di serenità di giudizio sul percorso delle riforme. Piero Luigi Vigna — già procuratore capo a Firenze noto per le inchieste sui sequestri di persona e sul terrorismo e poi capo della Procura nazionale antimafia — è un magistrato «tutto di un pezzo» anche da pensionato: «Io non ho mai accettato incarichi che fossero proposti da un ministro se pure previsti dall'ordinamento giudiziario. Nel 1980 dissi di no a Darida che mi chiese di fare il direttore del Dap, che pure è un incarico molto ben remunerato, e dieci anni dopo dissi la stessa cosa a Martelli che mi chiedeva di prendere il posto che fu di Falcone alla direzione degli Affari penali».

Perché ci tiene tanto a questa distanza, anche formale, tra magistratura e politica?
«Dico questo perché ci deve essere una netta distinzione tra i ruoli in modo che anche i cittadini abbiano ben chiara questa separazione tra magistratura e politica. Altrimenti si può pure diffondere l'idea che la magistratura abbia degli obiettivi politici e che quindi agisca per favorire o sfavorire questa o quella forza politica».

A cosa si riferisce? Pensa a qualche inchiesta in particolare?

«In passato ci sono stati casi emblematici — penso all'inchiesta Musotto a Palermo — in cui sono stati perseguiti alcuni politici senza che poi ci fosse alcun esito processuale definitivo nei loro confronti».
È pure vero, però, che la politica teme una magistratura autonoma e non sottomessa al potere esecutivo.
«Spesso la politica ha tentato di soffocare con leggi mirate le legittime iniziative della magistratura. Per esempio, ricordo quattro anni fa la legge sulle intercettazioni del ministro Mastella che fu votata all'unanimità dalla Camera anche se poi si bloccò al Senato. Penso poi alla bancarotta e ad altre leggi che sancivano un solo principio: difendersi dal processo e non nel processo. E questo è l'affronto massimo che si può fare all'ordinamento giudiziario».

Al dottor Ingroia, il procuratore aggiunto di Palermo che con l'inchiesta sulla trattiva tra Stato e mafia è entrato in rotta di collisione anche con il Quirinale, è stato chiesto: entrerà mai in politica? «Mai dire mai», ha risposto lui.

«È una di quelle frasi che amano tanto i siciliani. Ma io sono in disaccordo. Lo sto dicendo da 25 anni, attirandomi anche le tirate di orecchie dei miei colleghi: non è ammissibile che un magistrato interrompa la sua attività per fare il politico perché tutti penseranno che quello che ha fatto con la toga addosso lo ha fatto per uno scopo diverso da quello della sua funzione. Dico di più, secondo me neanche da pensionato un magistrato dovrebbe iscriversi a un partito politico».

A proposito di intercettazioni, condivide il giudizio del presidente Monti che parla di abusi?

«Ci sono stati abusi soprattutto nel campo della pubblicazione delle intercettazioni, non c'è dubbio su questo. Non siamo mai stati capaci, e mi riferisco anche a me, di individuare la manina o la manona che faceva circolare le notizie coperte da segreto perché il giornalista si è sempre trincerato dietro il segreto professionale o raccontando la storiella della busta anonima giunta in redazione. Quindi io sono per un sistema in cui deve essere il giudice, con l'udienza filtro, a stabilire con le parti presenti quali sono le intercettazioni rilevanti penalmente mentre tutte le altre vanno chiuse in cassaforte, in un archivio riservato. Sono anche d'accordo nel restringere il campo per la pubblicazione delle intercettazione durante le indagini preliminari: bisogna restringere perché oggi, infatti, l'atto non è più segreto quando ne viene a conoscenza il difensore o l'indagato. Lasciando comunque al giornalista la facoltà di menzionarne il contenuto quando queste vengono allegate o richiamate nelle ordinanze di custodia cautelare».

Il fatto che un pm abbia ascoltato, seppure indirettamente, le telefonate del Quirinale ha fatto aprire gli occhi anche ai più accesi difensori della legge attuale?

«Spero che l'iniziativa del Presidente, al di là del conflitto di attribuzione tra poteri sollevato, porti la Consulta a dire una parola chiara e definitiva su un punto molto importante non chiarito dalle nostre leggi che sono un po' ambigue. È infatti da ritenersi indiretta una intercettazione quando si ha la ragionevole consapevolezza che l'indagato parlava con una determinata persona identificabile fin dall'inizio dell'attività di ascolto? È questa da considerarsi una intercettazione casuale? Ecco, questa è l'occasione in cui la Corte costituzionale potrà dare chiarimenti definitivi su questa materia».

Tratto da: Il Corriere della Sera

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