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la-licata-francescoVent’anni di colpi di scena e depistaggi: tutti i misteri della trattativa Stato-mafia
di Francesco La Licata - 17 luglio 2012

Palermo. L’arresto di Totò Riina il 15 gennaio 1993 da parte del Ros. Via dei Georgofili a Firenze, dietro gli Uffizi, dove la notte fra il 26 e i 27 maggio 1993 una bomba mafiosa uccise 5 persone e ne ferì 48. Tutto ciò ha avuto un «tempo di cottura» elevatissimo (quindici anni) e oggi esplode come una bomba a tempo sul delicatissimo terreno istituzionale che coinvolge il Quirinale.

Dopo le critiche subìte e le accuse approdate su alcuni giornali a proposito delle telefonate intercorse fra Nicola Mancino, il consigliere giuridico, Loris D’Ambrosio, e lo stesso Napolitano, il Capo dello Stato ha deciso di sollevare conflitto di attribuzione nei confronti della Procura della Repubblica di Palermo, depositaria delle intercettazioni «incriminate». Ma l’iniziativa ha funzionato soltanto da detonatore di una «bomba» che era innescata già da tempo. Almeno sin da quando (4anni fa) fu avviata l’inchiesta giudiziaria sulla cosiddetta «trattativa fra Stato e mafia», quel tentativo istituzionale, cioè, di interrompere la mattanza mafiosa cominciata con l’omicidio dell’eurodeputato

Salvo Lima e approdata fino alle stragi del ‘92 (Falcone e Borsellino) e del ‘93 (Roma, Firenze e Milano).

Un lungo filo rosso ha attraversato questi ultimi anni, lasciando scorie velenose che, di volta in volta, hanno fatto capolino per scomparire sotto un silenzio capace di stoppare solo momentaneamente l’inevitabile esplosione. Strascichi di veleni senza antidoto.

La trattativa Per primo ne parla il pentito Giovanni Brusca, addirittura quando è in istruttoria l’inchiesta fiorentina sulle stragi del ‘93. Tira in ballo i carabinieri del Ros per i contatti con l’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino. E rivela, tra le smentite del Ros, l’esistenza del cosiddetto “papello”, cioè la lista di richieste che Totò Riina inoltrava allo Stato in cambio della fine dello stragismo. In testa al “papello” c’era l’allentamento del carcere duro per i mafiosi, il famigerato “41 bis”. A seguire, la pretesa dell’abolizione della legge su pentiti e della “Rognoni- La Torre”, che attenta ai patrimoni mafiosi. Ma la trattativa rimase prima seppellita dall’imbarazzo isituzionale, poi nel limbo della sentenza che mandò assolti (ma col ricorso alla ragion di Stato) gli ufficiali del Ros, processati per la mancata perquisizione del covo di Riina. Omissione che, secondo l’ipotesi della Procura di Palermo, faceva parte degli accordi conseguenti alla trattativa.

Il figlio del sindaco è Massimo Ciancimino, figlio di don Vito, a raccontare nei particolari la trama a suo tempo indicata da Brusca. Consegna ai magistrati una montagna di documenti e una serie di rivelazioni (qualche volta confuse e contraddittorie, altre volte precise e riscontrate) sul ruolo ricoperto dal padre nell’ambito dell’inconfessabile «contatto» fra Stato e mafia, attraverso i carabinieri del Ros. Descrive anche il padre come mafioso «utilizzato» nel tempo dai servizi segreti, in perenne contatto con Bernardo Provenzano, da un lato, e con un fantomatico 007 chiamato «signor Franco» che non ha mai saputo, o voluto, identificare.

Le perizie sui documenti dicono che non sempre è possibile certificarne l’autenticità. Ma solo uno dei «pizzini» di Massimo risulterà evidentemente falso e banalmente contraffato: si tratta di quello con cui Ciancimino jr calunnia l’allora prefetto Gianni De Gennaro, oggi sottosegretario con delega ai servizi, indicandolo come «vicino al signor Franco». Con quell’atto irresponsabile, Massimo Ciancimino decreta il proprio «suicidio giudiziario». Diventa teste inattendibile sempre, anche quando come nel caso della trattativa, appunto - dice cose tanto attendibili da essere utilizzate dagli stessi magistrati che lo definiscono «imbroglione». Siamo al canovaccio classico della spy-story. Non solo, da quel momento gli cade addosso di tutto: il riciclaggio col boss calabrese, fantomatica inchiesta di cui non si sa più nulla. E, appena qualche giorno fa, la scoperta di un «tesoro» di 12 milioni, virtuali sembra, perché di soldi non se ne sono ancora visti.

Il depistaggio Una montatura mostruosa che provoca la riapertura del processo sulla strage di via D’Amelio, già concluso con condanne in Cassazione. È Gaspare Spatuzza a rivelare un nuovo film della strage di via D’Amelio, una trama che tradisce l’imbroglio dei pentiti Scarantino e Candura. Le cose non andarono come raccontato dai due: la «126» usata come bomba non fu rubata da Scarantino, ma da Spatuzza. I pentiti che hanno mandato all’ergastolo la mafia della Guadagna sono stati «indottrinati». Da chi? Probabilmente non si saprà mai perchè l’investigatore che guidava le indagini è morto e dagli altri poco si riesce a sapere. Ma una certezza esiste: tutto l’impianto accusatorio è stato inventato. Perchè? Difficile anche questa risposta: ansia di risultato? Desiderio di offrire, a qualunque costo, dei colpevoli all’opinione pubblica? Oppure depistaggio per proteggere i veri colpevoli? La Procura di Caltanisetta è alle prese con questo rompicapo niente male.

I veleni La politica sapeva della trattativa sul carcere duro. Il ministro della Giustizia di allora, Giovanni Conso, revocò più di 300 decreti per i mafiosi al 41 bis. Il senatore

Mancino, sempre secondo l’accusa, trattò da ministro dell’Interno, frettolosamente subentrato ad Enzo Scotti, «dirottato» agli Esteri. Se fossero vivi, sarebbero indagati Oscar Luigi Scalfaro e Vincenzo Parisi, allora capo della Polizia. Ce n’è abbastanza per giustificare il ritorno di memoria di molti protagonisti di quella stagione che oggi si sono ricordati di aver saputo del «contatto» con la mafia tenuto dal col. Mario Mori e dal cap. Giuseppe De Donno. E per comprendere le liti tra magistrati: su Conso (non tutti i pm hanno firmato l’avviso di garanzia); sul Quirinale e in particolare sulle telefonate tra Mancino e D’Ambrosio e «incidentalmente» tra Mancino e Napolitano (il procuratore Messineo non ha firmato la chiusa inchiesta); su Ciancimino, da Caltanissetta indagato per la calunnia e da Palermo arrestato. Ora lo scontro col Quirinale, che non promette nulla di buono.

Tratto da: La Stampa

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