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dellutri-marcello-web1La Cassazione annulla con rinvio la sentenza a carico del senatore Marcello Dell'Utri
di Saverio Lodato - 12 marzo 2012
Ora scopriremo che in Italia esiste il tritolo mafioso e garantista. Perché lo dico? Perché mi sarei aspettato che la Cassazione avesse definitivamente assolto con tante scuse per il fastidio procurato, o avesse mandato in galera, una volta per tutte, e con codazzo di carabinieri, il senatore Marcello Dell’ Utri, il gran commis di Silvio Berlusconi degli ultimi vent’anni.

Sì, voglio dire: mi sarebbe piaciuta, da cronista che per sedici anni  si è occupato di questo cosiddetto «processo politico», una sentenza totalmente evangelica. Una sentenza ispirata alla parola di Gesù: «Il vostro parlare sia “ sì, sì;no, no”. Il  sovrappiù viene dal Maligno» (Matteo, capitolo quinto, versetti 37-38). Ma forse, come mi ebbe a dire un vecchio cronista tanti anni fa, io credo ancora alla Befana. L’ argomento adoperato dal sostituto procuratore generale della  Cassazione, Francesco Iacoviello, per annullare la sentenza di condanna di secondo grado a sette anni a carico di Dell’Utri, lungi dall’ essere improntato alla chiarezza evangelica, appare piuttosto di brutalità luciferina: “un reato indefinito, quello del concorso esterno, al quale ormai non crede più nessuno”.

Così si è infatti sfogato e ha arringato Iacoviello;  accoratamente rivolgendosi al presidente della quinta sezione di Cassazione.  A quel  punto, è come se la posizione processuale di Dell’ Utri fosse evaporata per incanto, e lui, il diretto interessato, fosse uscito di scena, trovandosi  declassato dall’ingombrante ruolo del protagonista a quello più disinvolto del comprimario di un gioco ben più grande di lui.   Chiederete: qual è questo gioco? E’ un gioco antico, quello tentato dal procuratore  Iacoviello. Un gioco al quale una parte della magistratura italiana non si è mai sottratta. Il gioco di ritenere che la mafia si riassuma nella somma aritmetica di un certo numero, più o meno consistente a seconda delle stagioni, di mafiosi;  nient’affatto organizzazione centralistica e omertosa, verticale e ramificata sul territorio, con le sue belle complicità istituzionali, politiche e finanziarie e economiche, come si è venuta configurando invece, sin dalle sue origini, Cosa Nostra.  E, proprio per questa sua particolare natura criminale, favorita da un’ ampia raggiera di fiancheggiatori, simpatizzanti, colletti bianchi, vedette lombarde di deamicisiana memoria, o, per dirla con una vecchia canzone di Iannacci, quelli che di mestiere hanno sempre fatto il palo nella banda dell’ Ortica.  Il  concorso esterno in associazione mafiosa, che a Iacoviello pare risulti di digestione assai sofferta, non è un optional accusatorio, uno scorretto asso nella manica da calare quando per l’accusa il processo si mette male. Prova ne sia che a sentirne la necessità, proprio per mettere i pali della banda dell’ Ortica nella condizione di non nuocere, siano stati, prima di essere fatti a pezzi dal tritolo mafioso e garantista, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Prova ne sia che a pensarla come Iacoviello, fosse anche il capostipite della  «scuola di pensiero», quel Corrado Carnevale - processato e assolto, ci mancherebbe, dalla Cassazione. Prova ne sia che  sulle sentenze assolutorie di Carnevale che piovevano sui mafiosi come manna dal cielo,  Falcone in persona, appena giunto alla direzione degli affari penali del ministero di Grazia e Giustizia, ordinò un monitoraggio.  Si potrebbe addirittura tornare alla notte dei tempi. Agli anni cinquanta e sessanta, quando i processi alla mafia si concludevano già in primo grado con raffiche di assoluzioni. Soprattutto quando, in più di un’occasione, il pubblico ministero si spogliava del suo ruolo accusatorio ergendosi a difensore degli imputati in catene. I quali, infatti, venivano rimandati a casa con tante scuse.

E  in giornata. I mafiosi, in quegli anni, in Cassazione neanche ci arrivavano. Il procuratore di Torino, Gian Carlo Caselli, ha definito gli argomenti di Iacoviello: “alquanto imbarazzanti”. Il procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, riferendosi al reato di concorso esterno, ha parlato di “innovative idee giurisprudenziali”, fondate da Falcone e Borsellino. Né si sono riferiti alla motivazione della sentenza della Cassazione che non si conosce.

E nell’attesa di leggerla, quando diventerà pubblica. Parole assai evangeliche, le loro. Quasi garbate, pur nell’ esemplare chiarezza. Ma noi, che non siamo magistrati fra i magistrati, ma semplicissimi cittadini fra i cittadini, vorremmo formulare questo interrogativo: che ci sta a fare in Cassazione un sostituto procuratore generale che impugna il tritacarne per ridurre in poltiglia – motu proprio, e a suo insindacabile giudizio - quelle parti del codice penale che non gli risultano commestibili e che invece a Falcone e Borsellino andavano benissimo? Sì, sì: è solo a Iacoviello che intendiamo riferirci.

Tratto da: liberainformazione.org

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