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tranfaglia-nicola-web2di Nicola Tranfaglia - 25 gennaio 2012
Tutte le volte che l’Italia entra in crisi (e in questo momento ci sono crisi numerose e difficili da risolvere: da quella “economica” che tutti riconoscono a quella “morale e politica” che ci ha condotti al governo “tecnico”, dopo le ultime elezioni politiche dell’aprile 2008 vinte dalla destra berlusconiana) rispunta quello che forse è più corretto definire l’indipendentismo, o anche separatismo siciliano, che vorrebbe fare dell’isola uno Stato indipendente ed estraneo all’Italia unita.

È accaduto, senza andare troppo lontano, nel drammatico quadriennio che va dal 1943 al 1947 e che ha segnato la caduta del regime fascista e l’inizio difficile verso la democrazia – al centro della Guerra fredda tra gli Stati Uniti e l’Unione sovietica – che ha caratterizzato il primo cinquantennio dell’Italia repubblicana.

Quel movimento era nato negli anni Trenta, all’interno dei primi tentativi di organizzazione antifascista e, aveva annoverato subito un sostenitore della destra proprietaria come il conte Lucio Tasca autore nel 1943 di un esplicito Elogio del latifondo, ma anche il più giovane prof. Antonio Canepa. Questi, nel 1933, aveva radunato un gruppo di cospiratori per tentare un colpo di mano antifascista nella Repubblica di San Marino e alcuni anni dopo divenuto agente dei servizi segreti inglesi, aveva scritto un opuscolo intitolato La Sicilia ai siciliani (1941). Due anni dopo lo troviamo al comando di un reparto dell’Evis (Esercito Volontario per l’Indipendenza Siciliana) per guidare una sollevazione armata contro il governo nazionale. Insomma, già nel separatismo siciliano della guerra e del dopoguerra riuscivano a convivere due leader come Tasca e Canepa, separati sul piano culturale e politico da idee e posizioni molto diverse. Settant’anni dopo, con il movimento dei Forconi che ha conquistato nei giorni scorsi le prime pagine di alcuni quotidiani e persino di alcuni canali televisivi meno vincolati agli attuali centri di potere, emerge in primo piano il volto della destra razzista ed eversiva di Forza Nuova che connota alcuni segni importanti del movimento (come la bandiera che richiama soltanto la Trinacria siciliana e separatista) ma anche quello del disagio e della miseria delle popolazioni siciliane prive di lavoro, e in difficoltà nella vita quotidiana, in un’isola in cui ormai non arrivano più né il carburante per i tir né i generi alimentari necessari alla sopravvivenza dei siciliani che non hanno avuto neppure il tempo di accumulare scorte e provviste.

La verità è che la parola d’ordine del separatismo può mettere insieme, in maniera provvisoria e superficiale, forze e classi sociali diverse, ma non può costituire un programma credibile sul piano democratico per affrontare e risolvere i problemi della Sicilia contemporanea. Come, su un piano diverso, un governo tecnico come quello guidato da Monti a cui sono stati costretti a ricorrere i partiti politici maggiori, in mancanza di elezioni politiche vicine e di una soluzione accettabile da parte dei centri di potere più influenti (pensiamo alla Confindustria, ma anche, come è ovvio, al Pdl e al Pd), non potrà risolvere problemi centrali della crisi italiana e servirà piuttosto a rimettere in ordine i conti e a imporre agli italiani i necessari sacrifici di fronte alla grave crisi economica.

Dire che tutto avvenga con la necessaria equità è francamente discutibile giacché l’imposizione di tasse è avvenuta ancora una volta a danno dei lavoratori e dei pensionati mentre i possessori di grandi patrimoni mobiliari e immobiliari sono stati rigorosamente risparmiati dai sacrifici e potranno godersi a tempo indeterminato il frutto, in certi casi, di affari fortunati, in altri di favori acquisiti in maniera illecita. Il peso sempre più rilevante che le organizzazioni mafiose hanno in Italia, in Sicilia come in Piemonte e Lombardia, nel Lazio come in Toscana e in Emilia Romagna o nel Veneto genera continuamente corruzione e favorisce i ceti e gli individui che si trovano in condizione di acquisire denaro e potere evadendo, in parte o in tutto, il connesso carico fiscale.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano

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