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di Gian Carlo Caselli
La riforma ha più pregi che inconvenienti. Il sistema penale oggi produce iniquità. Non può esserci un processo per i cittadini comuni e uno per i “galantuomini”

La prescrizione di cui tanto si discute, fino a ipotizzare una possibile crisi di governo, è quella (art. 157 del codice penale) che estingue il reato rendendolo non più procedibile, per effetto del decorso di un tempo che varia in considerazione della pena “edittale” stabilita. L’istituto esiste in tutti Paesi democratici, ed è basato – volendo semplificare – sul presupposto che allo stato non conviene più continuare a perseguire un reato (con le relative spese) quando è trascorso troppo tempo: perché del reato si è persa la memoria, le prove sono ormai difficili se non impossibili da accertare, l’imputato si presume che possa essere cambiato diventando di fatto un’altra persona.
Ma quel che ovunque funziona come mero rimedio fisiologico contro i pochi scarti che l’ingranaggio non è riuscito a trattare, da noi ha finito per strutturarsi come fenomeno assolutamente patologico. Nel senso che da misura circoscritta a pochi casi limite, la prescrizione è stata trasformata in una voragine mastodontica che inghiotte senza ritorno processi in quantità enorme. Sicché il sistema di giustizia in tutti questi casi produce il suo contrario: denegata giustizia, per le vittime e verso i presunti responsabili.

Con questa ulteriore differenza rispetto al resto del mondo. Che ovunque altrove una siffatta vergogna si farebbe di tutto per cancellarla, mentre da noi c’è il vizio di fingere di cambiare qualcosa lasciando sostanzialmente immutata la situazione. O addirittura peggiorandola. Paradossale ma vero. Basti pensare alla legge 5 dicembre 2005, n. 251 (cosiddetta ex Cirielli, in quanto disconosciuta alla fine persino dal suo proponente!), che blaterando di riduzione dei tempi del processo pensò bene di ridurre… i termini di prescrizione. Riuscendo così a moltiplicarne in misura esponenziale il numero, già disastroso!
Vuol dire che il lutto dei reati che si estinguono in massa a qualcuno non si addice. A chi, non è difficile vedere. Basta confrontarsi con il dato di fatto che il nostro sistema penale si caratterizza per la compresenza di due distinti codici (invece di averne uno solo uguale per tutti): un codice per cittadini “comuni” e un altro per “galantuomini” (cioè le persone giudicate – in base al censo, alla collocazione sociale o alle relazioni – comunque per bene…).

L’uno e l’altro di durata biblica, ma con una grave asimmetria. Per i “galantuomini”, che possono contare su difensori abili, agguerriti e costosi (professionalmente capaci di sfruttare tutte le pieghe di una procedura che offre l’opportunità di eccezioni d’ogni tipo opponibili a piene mani), il processo in pratica può ridursi soprattutto a misurare l’attesa che il tempo si sostituisca al giudice nel definirlo con la prescrizione che tutto cancella. Mentre negli altri casi il processo riesce molto più spesso a concludersi, segnando irreversibilmente (anche per la sua interminabile durata) la vita, i corpi, gli interessi e le relazioni delle persone.
L’attuale sistema è dunque fondato su un doppio processo – costituzionalmente un ossimoro – che si risolve nella negazione di elementari principi di equità. Un sistema perverso che crea ingiustizia e disuguaglianze, dove i processi non finiscono mai e nello stesso tempo si producono centinaia di migliaia di prescrizioni ogni anno. Occorre perciò intervenire sui due versanti della prescrizione e della durata dei processi, fra loro strettamente connessi.

Ora, le prescrizioni sono così tante soprattutto perché nel nostro ordinamento (a differenza, anche in questo caso, degli altri Paesi) esse non si interrompono mai. Sono previste in alcuni casi sospensioni temporanee, ma non un’interruzione definitiva. Che è stata introdotta anche da noi – finalmente! – con la cosiddetta legge “spazza corrotti” (l. 9 gennaio 2019, n. 3), che fa decorrere l’interruzione dalla sentenza di primo grado sia essa di condanna o di assoluzione. L’effettiva entrata in vigore di tale norma è stata però prorogata al 1°gennaio 2020.
Per motivare la proroga si era detto che nel frattempo si sarebbe provveduto a una riforma del processo penale che lo avrebbe sensibilmente accelerato. Ma il 2019 è ormai trascorso e il processo non è cambiato. Ne deriverebbe secondo alcuni che la nuova disciplina della prescrizione sarebbe una “bomba atomica”: perché l’interruzione definitiva della prescrizione senza ridurre la durata del processo avrebbe come conseguenza che dopo la sentenza di primo grado i processi finirebbero per durare “all’infinito”, con grave pregiudizio per tutte le parti in causa, non essendo previsto nessun termine entro cui debbano essere celebrati.
In verità, gli effetti della nuova prescrizione si potranno vedere soltanto fra 3 o 4 anni. Appare perciò sensato tenerla ferma, senza accettare soluzioni interlocutorie di compromesso. Di modo che le forze interessate realmente (e non solo a parole) a un processo più rapido, si attivino una buona volta seriamente, in concreto e senza più scuse.

È vero che nel frattempo alcuni processi potrebbero restare aperti in appello per un tempo più lungo a seguito dell’interruzione della prescrizione dopo la sentenza del tribunale, ma il rischio è circoscritto ad alcuni casi soltanto e certamente non riguarda “tutti” i processi, come invece cercano di far credere le prèfiche di mestiere, parlando all’ingrosso di processi destinati a “durare all’infinito”.
Si tratta comunque di un’eventualità che potrà essere adeguatamente “governata” elaborando un qualche meccanismo (controllato dal Csm e dal consiglio giudiziario) che indirizzi i magistrati dell’appello verso forme di organizzazione del lavoro in grado di migliorare la loro produttività; posto infatti che è proprio in questa fase che si registra il “record” di durata del processo, pari – secondo una statistica del Sole 24 Ore – a 749 giorni, quasi il 48% sui 1.586 complessivi, computati tenendo conto anche dei tempi di procura, tribunale e cassazione.

In ogni caso, tale eventualità sarà ampiamente bilanciata dall’azzeramento dei casi in cui, con la prescrizione, la giustizia è costretta a dichiarare il suo fallimento, negando all’innocente l’assoluzione o regalando al colpevole l’impunità. E ciò con riferimento ai processi che sono arrivati al vaglio del tribunale, di regola quelli di maggior rilievo, per i quali appunto si pone con maggiore intensità il problema di evitare un default dello stato.

In sostanza, sembrano esserci alcuni buoni motivi per ritenere che questa volta la catastrofe potrebbe ben restare soltanto annunciata. E che l’art.1 della “Spazzacorrotti” ha più pregi che eventuali inconvenienti.
(30 dicembre 2019)

Tratto da: liberainformazione.org

Foto © Imagoeconomica

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