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di Gian Carlo Caselli
Borsellino e Falcone sono stati celebrati come eroi solo dopo la strage. In vita sono stati lasciati soli e privi di mezzi.

Nicola Morra è all’origine della decisione di desecretare l’audizione di Paolo Borsellino dell’8 maggio 1984 avanti alla Commissione parlamentare antimafia dell’epoca.
Una decisione assai meritoria e preziosa, perché consegna all’attenzione e allo studio di tutti uno straordinario spaccato di quella che è stata per lunghissimo tempo la realtà del contrasto alla mafia.
Emerge innanzitutto una verità oggi quasi dimenticata: Borsellino (e Falcone) vengono celebrati come eroi soltanto dopo la strage che li ha uccisi, mentre in vita sono stati spesso lasciati soli e privi di mezzi, quando non osteggiati, denigrati e attaccati.
Ascoltando le dichiarazioni di Borsellino all’Antimafia è poi di tutta evidenza che la forza di Cosa nostra (come delle altre mafie che da secoli impestano l’Italia) non è soltanto “interna”: vale a dire che deriva sì dalla sua spietata organizzazione criminale, ma è anche – se non soprattutto – “esterna”, vale a dire che un peso decisivo hanno le sottovalutazioni, le connivenze e le complicità che ne segnano la storia.
Così “storicizzate”, le terribili dichiarazioni di Borsellino, incontrovertibile causa di sdegno profondo per tutti coloro che hanno a cuore la convivenza civile, assumono anche le cadenze di un libro di storia che disvela e denunzia la irresistibile tendenza di oscuri poteri antidemocratici a tenere il funzionamento della giustizia sotto i limiti della decenza.
Così lo “sfogo” di Borsellino aiuta a comprendere meglio, in tutta la sua dirompente portata, la “banalità” quotidiana delle disfunzioni che hanno caratterizzato l’antimafia in una fase in cui era considerato financo sconveniente parlare di “lotta”.
A fronte di una eccezionale mole di lavoro – il primo maxi-processo – ecco i computer che non ci sono o non funzionano; ecco un personale ausiliario (senza del quale nessun ufficio giudiziario può funzionare, così come nessun ospedale può operare senza infermieri) insufficiente, mentre non ci sono soldi per lo straordinario; ecco soprattutto la sicurezza dei magistrati più esposti ridotta ad una farsa oscena e sconfortante. Nonostante vi fosse già stata una sequenza impressionante di magistrati antimafia uccisi: Terranova nel 1979, Costa nel 1980, Chinnici (capo di Falcone e Borsellino) nel 1983.
Del resto, che la sicurezza dei magistrati antimafia non fosse in cima ai pensieri dei potenti dell’epoca emerge chiaramente da un episodio poco noto quanto emblematico: l’invito rivolto a Chinnici di desistere dalle indagini sui “Cavalieri del lavoro di Catania”. Invito rivolto da Salvo Lima, “proconsole” di Andreotti in Sicilia, e disatteso dall’onesto magistrato, per singolare coincidenza ucciso poco tempo dopo.
Infine, occorre accennare – a gloria della magistratura tutta – che la solitudine evidenziata da Borsellino non era “esclusiva” dei giudici siciliani. Si pensi a Mario Amato, trucidato dai Nar nel 1980. Anche per lui non si era trovata un’auto blindata. Per cui venne consegnato inerme alla vendetta dei criminali fascisti, che lo lasciarono sul terreno con in evidenza la suola bucata di una scarpa: indimenticabile simbolo del coraggio di un altro grande uomo.

Commissione parlamentare antimafia: le audizioni inedite di Paolo Borsellino

Huffington Post, il blog di Gian Carlo Caselli

Tratto da: liberainformazione.org

Foto © Shobha

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