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daphne figli lisbona 1996 c getty images daphne projectIntervista - Video
di Roberto Saviano
Daphne Caruana Galizia è morta gradualmente. Prima del tritolo c’è stata la diffamazione, poi la delegittimazione, infine l’isolamento. È così che spesso le voci critiche vengono annientate.
Era la tecnica usata con i dissidenti anche da Mussolini, che il 1° giugno 1924 inviò un telegramma al prefetto di Torino raccomandandosi di tenere la massima attenzione su Piero Gobetti per «rendere nuovamente difficile vita a questo insulso oppositore di governo e fascismo». Rendere la vita difficile agli oppositori. È la regola eterna d’ogni potere.
Ne parlo con i figli di Daphne, Matthew, Andrew e Paul. Non hanno mai rilasciato un’intervista tutti e tre insieme prima d’ora. Tre ragazzi intorno ai trent’anni, ognuno con le proprie individualità e le proprie esperienze, che hanno scelto carriere molto diverse tra loro e vivono ormai anche in Paesi diversi. Incontrandoli insieme, però, trovo tre fratelli estremamente affiatati.
Matthew, il più grande, è stato la prima persona a precipitarsi sul luogo dell’esplosione il 16 ottobre 2017. Gli chiedo di raccontarmi quel giorno.
Matthew: «Quella mattina, a un certo punto, mia madre ha ricevuto una telefonata e ha detto che doveva andare a un appuntamento, un appuntamento in banca. Ricordo il rumore dei suoi passi mentre si allontanava.
Ho sentito la portiera dell’auto che si chiudeva. E poi quando ha messo in moto, ed è partita. E non molto tempo dopo, saranno stati al massimo trenta secondi, ho sentito l’esplosione e sono saltato dalla sedia, perché ho capito subito cos’era quel boato. Sono uscito, mi sono messo a correre, finché non sono arrivato proprio sulla scena. Tutto ciò che ricordo è che ero completamente solo, non c’era nessun altro intorno a me, c’era soltanto il rumore degli alberi che bruciavano e il rumore del fuoco attorno ad una gigantesca colonna di fumo. Ma l’auto non c’era, io non la vedevo.
Cioè, c’erano pezzi dell’auto sparsi sul terreno, ma non riuscivo a vedere altro. Poi ho guardato la colonna di fumo, l’ho seguita fino alla base, e ai piedi di quella torre ho visto una palla di fuoco. Solo allora ho capito che era quella l’automobile. Ho guardato nel finestrino ma ho visto solo fuoco, non c’era altro. Era stranissimo, mi aspettavo di vedere qualcosa, invece non c’era nulla, solo fiamme e fuoco. Sembrava una scena di guerra, non solo per il fuoco, ma per come l’omicidio era stato pianificato, per come era stato messo in atto. La guerra si era materializzata all’improvviso.
Mi sentivo completamente impotente, non c’era nulla che potessi fare».
Il mio pensiero costante, conoscendo la vita sotto la minaccia di una condanna a morte, è capire se la fine ha raggiunto progressivamente quella persona, togliendole giorno per giorno un pezzo di vita, o se è arrivata all’improvviso, in una fase di serenità in cui credeva di aver aggirato il pericolo, in un momento in cui pensava di dover subire ormai soltanto attacchi politici, non attacchi fisici, militari. Per questo, chiedo se qualcuno di loro avesse mai contemplato la possibilità di un attentato del genere. E le loro risposte mostrano tutta la fragilità dell’essere umano di fronte a una situazione di questo tipo.
Andrew: «L’abbiamo sempre considerata una possibilità, ma poi ti convinci che non è così: cose del genere non erano mai accadute a Malta. Eravamo convinti che ai suoi avversari bastasse cercare di rovinarla economicamente, di rovinarci la vita in altri modi. Nostra madre era anche oggetto di un’imponente indagine da parte del fisco, quindi a quel punto, francamente, erano così vicini al loro obiettivo, rovinarla economicamente, che ucciderla sembrava quasi superfluo, perché non era praticamente più necessario visto che erano già riusciti a emarginarla e a distruggere ogni possibile forma di sostegno pubblico».
Paul: «Tutti noi siamo cresciuti convinti che, prima o poi, questione di tempo, sarebbe successo qualcosa di brutto, perché avevamo già subìto attacchi incendiari, allarmi bomba, minacce di morte».
Matthew: «E in ogni caso, come si fa a tenersi pronti? Smetti di guidare l’auto? Non esci più? Vai in giro con un giubbotto antiproiettile? Ti porti la pistola? Cosa fai? Come ti regoli?».



Daphne era stata la prima giornalista a scrivere di politica a Malta senza usare uno pseudonimo. Le sue inchieste affrontavano il tema della corruzione ed erano arrivate a coinvolgere anche i vertici del governo maltese. Negli anni, aveva subito minacce di ogni genere: da messaggi intimidatori ad attentati incendiari all’uccisione dei suoi cani sulla soglia di casa. In uno sistema democratico, quando un giornalista viene minacciato, quando un intellettuale rischia la vita per ciò che sostiene, lo Stato lo mette sotto protezione. La protezione è un apparato di sicurezza con cui lo Stato protegge un elemento fondante della sua democrazia, cioè la libertà di espressione. Quindi, difendere una persona a rischio significa ribadire che si è disposti a difendere la libertà d’espressione.
Ma nel caso di Daphne, si era realizzato quel pericoloso cortocircuito per cui le istituzioni che erano chiamate a difenderla erano le stesse che lei aveva messo sotto accusa nelle sue inchieste e che, quindi, da lei si sentivano minacciate. Daphne era un obiettivo facile perché era isolata, e a creare questo isolamento avevano contribuito le istituzioni stesse, come spiegano i suoi figli.
Paul: «Il problema di nostra madre è stato sempre non avere nessuno a cui rivolgersi. Per quasi tutta la sua carriera, ma soprattutto negli ultimi 4 anni, quelle autorità, nate proprio per proteggere persone come mia madre — e i cittadini, in generale — da questo tipo di minacce, sono state tra i suoi principali persecutori. La polizia, ad esempio, più di una volta l’ha accusata ingiustamente di cose che non esistevano, anche semplici multe per divieto di sosta, o per eccesso di velocità, che poi alla fine, in tribunale, si rivelavano tutte infondate. Però, comunque, la sensazione era che non avesse nessuno, che fosse completamente sola».
Matthew: «Certi membri del Parlamento consideravano la protezione una sorta di status symbol, che non volevano che nostra madre avesse. A loro avviso, secondo me, la protezione, in un certo senso, legittimava la sua figura, ciò che lei rappresentava. Quindi, se fossero riusciti a negargliela, l’avrebbero anche delegittimata, che corrispondeva esattamente al loro obiettivo finale».
Matthew, Andrew e Paul, fin da bambini, hanno sopportato calunnie, minacce alla loro famiglia, attentati alla loro casa, fino a vivere la tragedia più grande che si possa sperimentare: l’assassinio della propria madre.
Tutti e tre i ragazzi hanno lasciato il loro Paese, la loro famiglia e sono dovuti andare a vivere all’estero, perché è questo che gli è stato consigliato dopo l’omicidio della loro madre. Eppure, nonostante tutto, quando faccio una domanda su un loro eventuale futuro a Malta, mi rispondono così.
Paul: «Una parte di te ovviamente vuole andarsene e dimenticarla per sempre, soprattutto da quando è legata a un evento traumatico, ma c’è anche un’altra parte che dice: "Perché mai dovresti rinunciare? Perché dovresti lasciarla a loro?". So che anche nostra madre la vedeva così. È un po’ troppo facile dire: "Il Paese ormai è perduto, dimentichiamolo e voltiamo pagina"».
Matthew: «Il nostro Paese è cambiato radicalmente. La società in cui noi siamo cresciuti era completamente diversa. Io, però, voglio continuare a sperare che sia possibile tornare indietro, che sia possibile curare questa società. È malata, è distrutta, ma può essere curata. Forse non basterà una sola generazione… ma alla fine guarirà».

Su Nove torna King’s of Crime
Questa sera alle 21.25, su Nove, torna "King’s of Crime": le interviste esclusive di Roberto Saviano ai protagonisti dei fatti di cronaca nera, nella serie prodotta da ZeroStories e Itv Movie per Discovery Italia. Oggi è la volta di Matthew, Andrew e Paul, i tre figli di Daphne Caruana Galizia, la giornalista maltese uccisa in un attentato il 16 ottobre 2017.

Tratto da: La Repubblica

In foto: Insieme allo zoo di Lisbona. Daphne Caruana Galizia con i figli Paul, Andrew e Matthew in una foto del 1996 © Getty Images/Daphne project

Info: Daphne project

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