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mutolo gaspare con mascheradi Gabriele Romagnoli
Domani a Palermo si chiude un cerchio. Nella Casa di Paolo, luogo di cultura che commemora il magistrato antimafia Borsellino, viene inaugurata una mostra di quadri dipinti da Gaspare Mutolo, collaboratore di giustizia. Mutolo fu uno degli ultimi a incontrare Borsellino e ha più volte ricordato il nervosismo del giudice, due sigarette accese in contemporanea, dopo un inatteso faccia a faccia con l’ex dirigente di polizia Bruno Contrada.
Il collaboratore è sopravvissuto al suo giudice. Ma non solo. Mutolo è l’ultimo della foto di gruppo di una stagione di ferro e fuoco. Borsellino e Falcone sono stati ammazzati. Riina e Provenzano sono morti da prigionieri. Buscetta se n’è incredibilmente andato da uomo libero, in una stanza di New York. La solitudine di Mutolo è stata aggravata dalla perdita, due anni fa, della moglie Santina Maria (affettuosamente Marò) con la quale ha condiviso oltre cinquant’anni, una larga parte passati in parlatorio, un’altra con una nuova identità.
Ho conosciuto Gaspare Mutolo quando già collaborava da tempo e il rapporto tra noi è di amicizia, in forme inaspettate: da quando ha scoperto WhatsApp mi invia un messaggio ogni mattina all’alba, spesso con testi di preghiere o frasi che invitano alla serenità. Ci incontriamo di tanto in tanto, in località diverse, dove ha licenza di spostarsi da quella (incognita) in cui vive con un altro nome.
Mi mostra i passi avanti della sua pittura e appunti di ricordi quasi totalmente editi. Eppure c’è una storia che non ha mai raccontato: quella del suo matrimonio, così particolare. Gli ho suggerito di provare a farlo perché rappresenterebbe, anche, l’estremo omaggio a una donna che ha dato la vita per lui, dai tredici anni che aveva quando lo conobbe. Come sempre mi ha guardato in tralice e non ha detto né sì né no, poi è tornato alla sua residenza sconosciuta. Qualche tempo dopo mi ha spedito una foto in cui si vedeva un tavolo, un quadernone aperto e una penna tenuta da una mano senza padrone, ma simile a quella di uno scolaro che sta per fare i compiti. Sulla prima pagina c’era scritto: "Per il mio angelo Santina, Marò, mi ha amato in terra e sono certo che mi amerà dal cielo -. I ricordi di una donna di mafia".
All’incontro successivo mi ha portato il quadernone, con una trentina di pagine, il sommario di una vita, anzi due. Date, fatti, scene abbozzate. Non so che cosa intenda farne: l’appendice alla sua biografia scritta da Anna Vinci, il soggetto per un film, o soltanto una terapia, qualcosa che lo ha aiutato a confessarsi che non ha vissuto invano.
Comincia con "l’infanzia trascorsa nella stessa borgata", poi lui si dà ai «furti di macchine» e finisce in carcere: "Esco nel 1963 e trovo a Marò, una Bella ragazza, nasce qualcosa di molto tenero, qualche Bacetto in modo scherzoso... ero diverso dai giovani che noi frequentavamo... ma vado di nuovo in carcere perché in alcune casseforti a muro avevano trovato le mie impronte, era la prima volta che si sentiva, questo fatto delle impronte".
Come dire: proprio adesso dovevano fare questa scoperta? Il ritorno in galera rappresenta una svolta. Con lui viene arrestato il cognato, che era fratello di Marò: anche la ragazza viene ai colloqui. In cella con Mutolo c’è Giovanni Bonventre, che era stato capodecina della famiglia Bonanno a New York, ma aveva scelto di tornare con la moglie a Castellammare del Golfo, un criminale romantico, "un personaggio che rassomigliava al papa Giovanni e che mi disse, dopo aver visto una foto di Santina che ancora ho... nella vita i soldi non contano, conta trovare la ragazza giusta".
La "ragazza giusta" è per Mutolo quella che lo aspetta fiduciosa a ogni arresto, che fa la "fuitina" con lui a Catania, ospite della famiglia mafiosa Condorelli, che non commenta l’ingresso del suo uomo in quel giro, le visite a casa Bagarella, le mezze parole origliate nell’altra stanza.
"Eravamo due innamorati, che dove si andava ci facevano i complimenti per la serenità e felicità che ci portavamo nel viso". E "dove si andava" erano spesso rifugi, parlatori, case anche lussuose, ma abitate in attesa di nuovi rifugi e parlatori.
Annota Mutolo: "Il 2 gennaio 1970 nasce mio figlio Vito. Io sono in una clinica a Barcellona Pozzo di Gotto, il covo di tutti i malati immaginari per non fare il carcere duro. Mia moglie viene con il bambino piccolo per farmelo vedere, faceva tenerezza... e io stavo in manicomio, ma lei sapeva che facevo il matto però non lo ero". Durante la detenzione a Sollicciano, anni dopo, i bambini saranno tre "più i pacchi della biancheria e vedendoli il prete mi dice che sembrano proprio la copia della Pietà". E’ una vita così, fatta di lontananze e di ricongiungimenti, fino a che viene arrestata anche lei, Marò, che da tempo gridava al marito di uscire, rifarsi una vita, perché questa non era più accettabile.
"Questo fatto mi sconvolge e mi fa venire alla mente tutto quello che non condividevo più con la mafia e mi torna in mente Falcone. Lei più di me fu convinta che lo chiamassi e con il suo appoggio ero sicuro di quella scelta. Passammo notti insonni poi, alla fine del ’91, mi svegliai e mandai a chiamare quel giudice. E dopo, malgrado i disagi, ci sentivamo tranquilli".
Il pentimento è una categoria volgarizzata dall’informazione spettacolo: "E’ pentito? No scusi, parli nel microfono: è pentito?", e una metamorfosi si riduce a improvvisazione. Tommaso Buscetta si pentì per salvarsi la pelle. E per vendetta. Gaspare Mutolo per salvarsi l’anima. Per riscatto. E per l’unica persona che lo ha amato in maniera incondizionata.
Senza equivoci: la sua è anche una storia di sangue versato e il sangue versato non torna nelle vene. La complicità è totale, nel bene come nel male. Ma la redenzione è o non è il fine della storia delle storie?
La fine, quella, è un dettaglio: alle 8 e 37 del 10 luglio 2016 quando la moglie abbassa le palpebre Gaspare le sussurra: "Non mi fare questo scherzo".
Domani a Palermo si chiude un cerchio: ogni quadro in mostra nella casa di Paolo è dedicato a Maria Santina, detta Marò.

Tratto da: La Stampa

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