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borsellino paolo 610Valeria Frezza intervista il fratello del giudice ucciso dalla mafia
Salvatore Borsellino, fondatore dell’associazione Agende Rosse e fratello di Paolo, lotta a pugni chiusi, senza alzare bandiera bianca, contro il tempo e - spesso - contro tutti. Pronunciatosi in esclusiva a Zai.net, disegna un’Italia “disgraziata”, senza coscienza e senza un reale percorso di educazione sulla mafia dei giorni nostri. Cambiano i volti, spesso anche le modalità, ma le vittime restano. Soprattutto per loro la lotta deve continuare.

Quali sono gli obiettivi del Movimento Agende Rosse?
Il Movimento è costituito da cittadini che agiscono affinché sia fatta piena luce sulla strage di via D’Amelio a Palermo del 19 luglio 1992. Forniamo supporto a magistrati tutt’oggi impegnati nelle indagini sui processi Stato-mafia, osteggiati dal cosiddetto “Stato deviato”. Recentemente, per esempio, siamo stati a Roma per richiedere la scorta a Nino Di Matteo - sostituto procuratore palermitano del processo sulla trattativa Stato-mafia - date le ingenti minacce da parte di Riina.

Perché “Agende Rosse”?
Dall’agenda dell’Arma dei Carabinieri di Paolo, quell’anno di colore rosso. Negli ultimi 57 giorni della sua vita, infatti, non se n’è separato un attimo. Vi scriveva appunti sulle sue indagini, sulla strage di Capaci e sulle varie trattative.

Che fine ha fatto l’agenda?
Non lo sappiamo. Forse è stata sequestrata da Arnaldo La Barbera, ex capo della squadra mobile di Palermo. Non esitò a definire “pazza” la mia famiglia per averne affermato l’esistenza. Ricordo perfettamente il gesto di Paolo: quando rientrava a casa, posava sempre prima l’agenda, poi sopra la pistola.

C’è la possibilità che esista un copia di quest’agenda?
Anch’essa sparita.

A 25 anni dalle stragi siamo ancora lontani dal sapere chi ha ucciso suo fratello.
Siamo al Borsellino quinquies, ovvero il quinto processo della strage. Già nel Borsellino quater c’era la certezza di alcuni depistaggi di Stato, realizzati costringendo criminali innocenti come Scarantino a confessare menzogne sotto torture fisiche e psicologiche, perpetrate dagli stessi poliziotti.

Il giorno successivo alla strage, la casa di Paolo era piena di poliziotti.
Così tanto da costringere Manfredi (il figlio di Paolo, ndr) a mettersi davanti alla porta per fermare il flusso di persone che rovistava nel suo ufficio.

Anche Falcone aveva un diario.
Era più tecnologico di mio fratello. Si recò persino in America per prendere un databank dove scrivere i suoi appunti. File ovviamente spariti e recuperati solo successivamente da Gioacchino Genchi - esperto di informatica e telefonia -, destituito poi da Berlusconi.

I 57 giorni-Paolo Borsellino, uno dei film più toccanti sugli ultimi attimi di suo fratello.
Sono stati giorni dolorosi, sapevamo che Paolo sarebbe dovuto morire. Uccidere solo Falcone non sarebbe servito a nulla. Il mercoledì successivo alla strage Paolo sarebbe partito per Caltanissetta, dove avrebbe testimoniato sulla strage di Capaci. La mafia sa aspettare e non lo avrebbe ucciso così in fretta se non avesse dovuto testimoniare contro lo Stato. Falcone morì nelle braccia di mio fratello, anche se so che non si dissero niente. Comunicarono attraverso gli occhi. Giovanni era il vero fratello di Paolo.

Il vostro rapporto?
La domenica prima della strage lo chiamai. Come al solito mi rimproverò: “Ma perché non torni?”, non accettava che avessi lasciato Palermo. Gli risposi: “Paolo, ma raggiungimi tu. Se resti lì ti ammazzano”. Non reagì bene, mi urlò al telefono: “Se te ne sei andato tu non significa che debba andarmene anch’io”. La sua era una scelta d’amore, io sono emigrato al nord per far nascere i miei figli in un paese diverso, meno colluso con la mafia. Sarebbe stata solo una grande menzogna. Tutto quello che c’era in Sicilia l’ho ritrovato qui, ma in una forma diversa.

La morte di Riina ha conquistato molti titoli di giornale. Non quanto le trattative Stato-mafia…
Anche prima che morisse, purtroppo. Ma sai qual è la cosa peggiore? Molti giornalisti mi chiedono se l’ho perdonato. Ma cos’è il perdono? Qualcuno lo ha chiesto? Le minacce di Riina sono l’emblema dello Stato deviato. Per me lui è una belva morta in gabbia e chiedo scusa alle belve per questo paragone.

Quali sono i mezzi per combattere l’omertà?
Nella sua ultima lettera Paolo diceva di essere ottimista. La sua e la mia speranza sta nei giovani. Credo in un ricambio generazionale che possa rendere migliore questo nostro disgraziato Paese. Incontro migliaia di giovani e noto un’attenzione viva per questo tipo di problemi. Le cose possono cambiare. Spegnete la tv e informatevi attraverso la stampa libera, non quella asservita ai poteri forti, utilizzando internet nel miglior dei modi.

Il vostro sito?
È www.19luglio1992.com, nato grazie alla grande risposta ottenuta in seguito a una mia lettera d’aiuto. Sono stato in silenzio per 10 anni, all’inizio credendo che mio fratello fosse stato ucciso dalla mafia. Poi cominciai a capire cos’era successo anche grazie a internet. Pur conoscendo l’agenda, non ne avevo inizialmente compreso il valore.

Perché si parla sempre meno di mafia nelle scuole?
Studiarne l’etimologia non serve. Si deve far luce sulla mafia come infiltrazione nelle amministrazioni, nel mondo dei rifiuti, degli appalti, dei finanzieri e dei colletti bianchi. Non esistono più i morti ammazzati; le vittime di oggi muoiono di tumore per uno smaltimento irregolare dei rifiuti, interrandoli sotto le strade e gli asili: oggi è questa la mafia. Si dovrebbero studiare le stragi di Stato per fare aprire gli occhi alle persone. Fortunatamente i giovani lo fanno anche senza l’aiuto della scuola e mi scrivono molto spesso: sono pronti a lottare e a tenere alta l’agenda rossa.

Non è stata gradita la presenza delle alte cariche di Stato ai funerali di Paolo...
C’eravamo già resi conto della scarsa attenzione da parte delle istituzioni nei nostri confronti, come ad esempio la mancata affissione del divieto di sosta davanti al portone di mia madre che avrebbe potuto salvare mio fratello. La moglie, più volte minacciata indirettamente dalle stesse istituzioni, decise di non fare un funerale di Stato. Io non sono contro lo Stato ma contro persone come Giorgio Napolitano, garante del silenzio sulle trattative Stato-mafia, e Nicola Mancino, il quale - oltre ad aver negato delle verità su Paolo - finse ipocritamente di piangere davanti a me per la sua morte.

Ha mai pensato che suo fratello fosse un eroe?
Non voglio che sia definito così. Un eroe è al di sopra di tutti, ha capacità diverse dal normale. Questo porta a credere che se non ce l’hanno fatta gli eroi non ce la farà mai nessuno. Chi li onora con corone di fiori li vuole solo allontanare dalla realtà. Paolo e Giovanni erano servitori dello Stato, facevano il loro dovere e hanno scelto di farlo fino all’ultimo. Non dobbiamo voltare la testa dall’altra parte: se lottiamo, le loro idee cammineranno sulle nostre gambe.

Tratto da: zai.net

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