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di matteo c paolo bassani 2017di Liana Milella
Rileggiamo assieme le parole che Totò Riina, mentre era in carcere, pronunciò il 16 novembre 2013, alle 9 e 30, contro Nino Di Matteo. "Questo non se ne va, gli hanno rinforzato la scorta, e allora se fosse possibile ucciderlo, un’esecuzione come a quel tempo a Palermo, con i militari…Vedi, vedi…si mette là davanti, mi guarda con gli occhi puntati, ma a me non mi intimorisce, mi sta facendo uscire pazzo…come ti verrei ad ammazzare a te, come a prendere tonni. Ti farei diventare il primo tonno, il tonno buono. Ancora ci insisti? Minchia… perché me lo sono tolto il vizio? Inizierei domani mattina… organizziamola questa cosa… facciamola grossa, e non ne parliamo più".
Nino Di Matteo è andato avanti. Fino alla requisitoria del processo Stato-mafia. Fino alle richieste per gli imputati, 90 anni di carcere. Avrebbe potuto avere paura. Non l’ha avuta. Ma adesso non arretra dal dire: "La mia applicazione a questo processo termina qui. È un processo che ho seguito dall'inizio e che ha portato tante polemiche. Ho capito subito che avrei pagato un costo. Hanno più volte detto che le nostre azioni erano caratterizzate da finalità eversive. Nessuno ci ha difeso".
Un costo che Di Matteo continua a pagare. Perché il processo Stato-mafia ha segnato la sua vita, lo ha costretto a girare per Palermo su un blindato Lince, ha irrimediabilmente limitato la sua libertà e quella della sua famiglia. Adesso quel processo influisce anche sulla sua vita futura, su un suo possibile ruolo politico. Anche se Di Matteo, con una nettezza che altri (tranne Piercamillo Davigo) non hanno avuto, ha messo in chiaro che "chi lascia la toga per la politica non può più tornare indietro". M5S, che due mesi fa era pronto a inserirlo nel listino dei ministri, adesso si ferma. Niente toghe, neppure Di Matteo. Perché le eventuali polemiche - del tipo, se Di Matteo diventa un ministro di M5S allora anche il processo sulla trattativa Stato-mafia era politicamente orientato - si risolverebbero più in una perdita di consensi che in un vantaggio. M5S, in aggiunta, non vuole compromettere l’esito del processo.
Ma a questo punto dove va a finire la libertà di cittadino di Di Matteo? Da magistrato, per fare il suo dovere, deve subire le tremende minacce di Riina. Il processo gli toglie il diritto che ogni cittadino ha, quello di accettare, a un certo punto, di fare politica. Di Matteo può morire per fare un processo assieme ad altri tre colleghi. Ma quello stesso processo, che la magistratura ha portato avanti in piena solitudine, diventa una pietra al collo da cui Di Matteo è tenuto prigioniero. Una prigionia sulla quale, forse, bisognerebbe riflettere.

Fonte: milella.blogautore.repubblica.it

Tratto da: "Toghe da un'idea di Liana Milella"


Zero riconferme le toghe salutano il Parlamento M5S, no a Di Matteo

di Liana Milella
Toghe in politica addio. Il Pd, dopo un feeling durato oltre trent’anni, sta per divorziare dai magistrati. Niente giudici, neppure quelli in uscita dal Parlamento, anche per Liberi e uguali, basta Piero Grasso come testimonial. E pure M5S fa marcia indietro sull’ipotesi di Nino Di Matteo quale potenziale ministro della Giustizia o dell’Interno nel timore che le polemiche per il suo ruolo di pm nel processo trattativa Stato-mafia surclassino qualsiasi vantaggio. Niente giudici con Berlusconi e la Lega. Un’unica mosca bianca - è notizia di ieri - Angelo Raffale Mascolo, il gip di Treviso che critica lo Stato, vuole dare anche alla figlia un’arma per difendersi, chiede l’aspettativa al Csm per correre con Noi con l’Italia, la gamba centrista della coalizione di centrodestra.
Sta per chiudersi una stagione, quella aperta da Luciano Violante, l’ex giudice istruttore di Torino che nel 1979, dall’ufficio legislativo di via Arenula, si candida nel Pci, di cui, negli anni, diventa anche responsabile Giustizia. In queste ore, invece, il segretario del Pd Matteo Renzi non ha ancora garantito un collegio a Donatella Ferranti, l’ex pm di Viterbo e ex segretaria generale del Csm che per cinque anni è stata la presidente della commissione Giustizia della Camera e ha gestito non solo le leggi più delicate sulla giustizia come quella delle intercettazioni e della prescrizione, ma anche le unioni civili.
Non basta. Lo stesso Renzi, alle prese con la possibilità di candidare in Molise, come indipendente, l’ex pm Antonio Di Pietro, si sarebbe lasciato sfuggire la seguente battuta: "Non voglio in lista dei giustizialisti… ". E Di Pietro, a chi gli riferiva l’indiscrezione, avrebbe risposto: "Tra i giustizialisti e i pregiudicati ( e cioè Berlusconi, ndr.) preferisco sempre i primi".
Erano ben 18, a fine 2012 e prima della legislatura che si è appena chiusa, i magistrati in Parlamento. Ben nove nel Pd (e sette nell’allora Pdl). Nomi assai noti in Senato, lo scrittore ed ex pm Gianrico Carofiglio, l’ex procuratore di Milano Gerardo D’Ambrosio, l’ex giudice istruttore Felice Casson, gli ex pm Alberto Maritati e Silvia Della Monica, Anna Finocchiaro. Alla Camera, con Ferranti, Lanfranco Tenaglia e Doris Lo Moro. Già allora la scrematura fu netta. D’Ambrosio, scomparso nel 2014, della mancata riconferma ne fece quasi una malattia. Non se ne spiegava le ragioni, proprio lui che aveva proposto decine di leggi.
Oggi la chiusura ai magistrati, tra spontanee rinunce e mancate avance, è ancora più drastica rispetto a una pattuglia già di per sé esigua. Anna Finocchiaro, pur sempre magistrato ma da trent’anni in politica, non si ricandida. La Ferranti è in bilico. Rinunciano anche Casson e Lo Moro che hanno lasciato il Pd per Mdp. Poche chance per Stefano Dambruoso, in lizza con Monti nel 2013.
Al Csm, dove oggi un plenum straordinario dovrebbe dare via libera alla richiesta di Mascolo, non nascondono la sorpresa. È la prima volta che alla quarta commissione giunge una sola domanda di aspettativa. Saranno di più i componenti laici del Csm che ritornano in politica, come Pier Antonio Zanettin e Maria Elisabetta Casellati, in lizza con Forza Italia che già li aveva indicati per il Consiglio.
Certo una grossa sorpresa arriva da M5S perché il coinvolgimento di Nino Di Matteo per il listino dei ministri sembrava cosa fatta. Peraltro giusto oggi Di Matteo chiude definitivamente il suo rapporto con il processo sulla trattativa. Termina la lunga requisitoria, annuncia le richieste per gli imputati, poi torna a Roma alla Procura Nazionale Antimafia. La sua applicazione al processo, fissata in sei mesi dal procuratore di Palermo Francesco Lo Voi è scaduta ed è stata solo di necessità prorogata. Ma evidentemente quando Luigi Di Maio annuncia che "né Di Matteo, né Davigo, né Cantone faranno parte del nostro governo", teme le polemiche e una strumentalizzazione dello stesso processo.
Certo il Pd renziano, dopo le polemiche su Consip, non vede nei magistrati un fiore all’occhiello. Nel fronte delle toghe, mai come in queste elezioni, grava l’incertezza de voto, il rischio di correre e restare fuori, con la conseguenza di non poter più tornare al lavoro dove ci si è candidati. Indiscutibile l’effetto dissuasivo di una futura legge che potrebbe bloccare le porte girevoli. Chi si candida ed è eletto non può più tornare indietro.

Tratto da: La Repubblica del 26 Gennaio 2018

Foto © Paolo Bassani

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