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tescaroli luca c giorgio barbagallodi Luca Tescaroli
Il 21 settembre 1990 veniva eseguito con ferocia l’omicidio del giudice Rosario Livatino, in contrada san Benedetto di Favara, lungo la strada statale n. 640 da Canicattì per Agrigento, una Fiat Uno, con due sicari a bordo, affiancava e superava la Fiesta sulla quale viaggiava il giudice non ancora 38enne, costringendolo a fermarsi, mentre sopraggiungeva una moto Honda con a bordo altri due membri del commando. E subito una pioggia di colpi crivellava la macchina di quel magistrato, che, colpito a una spalla, invano cercava scampo nell’arida sterpaglia del vallone, ove veniva rincorso e braccato dai killer che gli toglievano la vita.

A 27 anni di distanza, possiamo dire, dopo la celebrazione di tre processi le cui condanne sono divenute definitive, che dieci mafiosi, appartenenti ai gruppi stiddari di Palma di Montechiaro e di Canicattì, hanno un nome e quel delitto ha un perché. L’eliminazione, con funzione preventiva e di vendetta, di Rosario Livatino, si è inserita in un contesto criminale di profondo e sanguinoso scontro mafioso, creatosi negli anni Ottanta fino all’inizio degli anni Novanta. Il delitto è stato ricondotto a ragioni di vendetta: punire un magistrato impegnato nel contrasto alla criminalità mafiosa per dare un segnale inequivocabile di potenza militare in seno alla Stidda e agli avversari di Cosa Nostra, un modo obliquo di mettersi in pari con la spietata eliminazione del giudice Antonio Saetta e del figlio disabile Stefano, decretata ed eseguita da Cosa Nostra, nella mezzanotte tra domenica 25 e lunedì 26 settembre 1988, dodici giorni dopo l’agguato al giudice in pensione Alberto Giacomelli. Livatino sapeva bene i rischi che correva, ma rimase al suo posto, nonostante le minacce e gli avvertimenti, l’assenza dei mezzi e le singolari prudenze dei superiori. Un eroe moderno al quale il nostro Paese deve essere profondamente grato e che non può essere dimenticato per la sua lezione di professionalità e dignità. Grato, innanzitutto, per aver testimoniato che l’adempimento del proprio dovere non può essere condizionato dall’interesse personale, dal compromesso, dall’esistenza di pericoli e dal clamore mediatico che talvolta le azioni giudiziarie assumono. La paura, sulla quale prosperano la mafia e l’omertà, può essere sconfitta.

L’insegnamento che dobbiamo raccogliere dall’assassinio di Livatino è che il magistrato deve applicare la legge nel caso concreto e deve essere indipendente, dai poteri esterni e da quelli interni alla categoria di appartenenza per poterlo fare compiutamente ed efficacemente. Sia che eserciti la funzione del pubblico ministero, sia quella del giudicante, ha il compito di reprimere la criminalità nelle sue variegate manifestazioni con tutti gli strumenti offerti dall’ordinamento, con la peculiarità che il pm, in ragione dei compiti investigativi attribuitigli, deve svolgere la propria funzione attraverso mezzi e forme diversi rispetto a quelli del giudice, il quale deve ricoprire una posizione di terzietà rispetto alla pretesa punitiva e alla linea difensiva dell’imputato, assicurando un giusto processo e la tutela delle garanzie per l’accusato, per le persone offese e i loro familiari. L’indipendenza va salvaguardata con la scrupolosa osservanza delle regole da parte del magistrato e con la libertà della coscienza, con la riflessione, con l’umiltà del proprio lavoro, con il coraggio e con la capacità di sacrificio e con il respingimento di qualsiasi tentativo di condizionamento e di incarichi che per la loro natura o per le implicazioni possano produrre interferenze nei compiti istituzionali.

Quell’assassinio scosse il Paese e rappresentò la causa determinante per far approvare, nel gennaio del 1991, la prima normativa sui collaboratori di giustizia che, dando dignità giuridica all’istituto, ha fattivamente contribuito ad arginare il potere mafioso e offre anche l’occasione per riflettere sulla realtà che oggi viviamo, caratterizzata da una criminalità mafiosa che è profondamente mutata rispetto agli anni Novanta. I risultati ottenuti sono straordinari e sono frutto del sacrificio e dell’impegno da parte di molti, proprio in seno a quello stesso Stato, che per anni ha tollerato e, forse, contribuito al dilagare della criminalità organizzata. Nessun delitto “eccellente” al cuore dello Stato è più stato posto in essere da 23 anni. Ai nostri giorni, Cosa Nostra e Stidda sono meno pericolose di quanto non lo fossero negli anni Novanta. La Stidda diffusa nelle province di Agrigento, Caltanissetta, Enna e Ragusa, con propaggini in Germania (nella cittadina di Mannheim) e che aveva saputo infiltrarsi in alcune amministrazioni locali come l’avevamo conosciuta – coacervo di clan feroci, federati e in contrapposizione con Cosa Nostra – non esiste più. È stata scompaginata a seguito delle collaborazioni con la giustizia delle figure apicali dei vari gruppi. Sono emerse strutture criminali nelle province di Catania, Ragusa e Siracusa che non hanno la forza di scontrarsi con Cosa Nostra e che, invece, coesistono con le famiglie di quest’ultimo sodalizio e che fanno affari assieme, come nel traffico di droga. La struttura di Cosa Nostra ha perduto l’unitarietà fortificatasi nel governo dei corleonesi, assumendo connotati pulviscolari. Le componenti più evolute e dinamiche dell’universo mafioso improntano oggi il proprio agire sulla minimizzazione dell’uso della violenza, si alimentano di servizi illegali che provengono da imprenditori e operatori economici in Italia e all’estero, i quali chiedono alle mafie servizi e prestazioni che servono per abbattere i costi di produzione, prediligono agire come soggetti economici, facendo ricorso crescente a metodiche corruttive, peraltro mai abbandonate, cavalcando nel modo più spregiudicato la logica e la cultura del libero mercato, perché l’intimidazione non è più pagante. La corruzione presenta molti meno rischi: è più difficile scoprirla perché l’omertà all’interno dei colletti bianchi supera quella mafiosa. Il forte debito di riconoscenza nei confronti di Livatino impone l’implemento dell’attività preventiva, di intraprendere un rinnovamento morale della classe politica proiettato al rafforzamento della legalità.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano

Foto © Giorgio Barbagallo

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