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battaglia letizia web0 correttadi Letizia Battaglia*
«Giovanni Falcone era una persona schiva ma cordiale». La voce roca di Letizia Battaglia è attraversata da un turbinio di sentimenti contrastanti: nostalgia, amore, dolore e disillusione. Mi parla con fatica e so già che a un certo punto dovrò interrompere la registrazione. La sofferenza fisica che prova ogni volta che rivive i ricordi di quegli anni a Palermo arriva a stringerle il cuore fino ad impedirle di continuare a parlare. Fotografa del quotidiano l'Ora negli anni più sanguinosi della mattanza mafiosa insieme al suo ex compagno Franco Zecchin, Letizia ha vissuto sulla sua pelle ogni tragedia di quella città, immortalando con la sua macchina fotografica quelle immagini di guerra. «Falcone non amava esibirsi davanti ad una macchina fotografica - ricorda Letizia - era una persona molto attenta a quello che diceva, non si lasciava andare a dichiarazioni o a commenti, era una persona molto ben educata. Io lo trovavo affascinante, davvero una bella persona». Una tosse secca che l'accompagna costantemente la frena qualche istante per poi riprendere il racconto del giorno dopo la strage di Capaci. «Di quel 24 maggio di diciotto anni fa - continua Letizia - ricordo il silenzio della folla. Il grande atrio del Palazzo di Giustizia dove era allestita la camera ardente gremito di gente. Tutti in fila per rendere onore a Giovanni Falcone, a sua moglie Francesca Morvillo e ai tre agenti di scorta morti con loro: Rocco Dicillo, Vito Schifani e Antonio Montinaro. Paolo Borsellino era in fondo alla sala, a destra c’erano le bare e in fondo... in fondo... in fondo c’era lui quasi nascosto dalla folla che andava avanti e indietro con la testa china, camminava avanti e indietro,  non vedeva nessuno, non parlava con nessuno e noi eravamo timorati nel guardarlo... Volevamo condividere con lui il suo dolore e condividere possibilmente anche il suo destino... Io credo che in quel periodo eravamo un tutt’uno, non era solo una lotta antimafia, ma era una comunione spirituale fortissima, fortissima... Quel suo andare avanti e indietro con la testa un po’ china mi faceva pensare ad una persona prigioniera…». Il ricordo del giudice assassinato vibra forte nelle parole di questa donna dall'animo puro e dallo spirito guerriero. «Ricordo la dolcezza infinita che emanava Paolo Borsellino - racconta Letizia - anche se si capiva che era un giudice attento e preparato. Era una persona dolce, che sembrava quasi mite, si intuiva che era una persona molto rispettosa. Mentre con Falcone non ci fu l’avviso del dramma che si sarebbe consumato (per quanto avevamo timore che potessero ammazzarlo perché la mafia aveva già ammazzato tanti uomini dello Stato), con Borsellino fu diverso, tutti si aspettavano che la tragedia si aggravasse». L'immagine dell'incontro con Borsellino alla Biblioteca Comunale si imprime nella storia di Letizia. «Non potrò mai mai togliermi dal cuore e dalla mente - racconta con un soffio di voce - il suo sguardo quando parlava, era triste perché lui lo sapeva quello che lo aspettava, tutti sapevamo che stava per succedere qualcosa di terribile. Ci sentivamo impotenti, c’era una disperazione in quella biblioteca comunale... c'era un silenzio totale. Stavamo ad ascoltare quasi il suo respiro quando parlava con quegli occhi tristi e con quella forza interiore che poi sarebbe rimasta dentro di noi, ma che poi non avremmo saputo mettere da parte... era quel suo sguardo, quel suo modo di portarsi la sigaretta e quella tristezza, quell'infinita tristezza... perché non si può non essere tristi sapendo che ti hanno condannato a morte e tu sei una persona innocente e pulita...». Sono i giorni immediatamente dopo la strage di Capaci quelli che Letizia rammenta con maggiore intensità. Mentre parla rivede davanti a sé lo sguardo del giudice Borsellino «così triste che sembrava che guardasse l’infinito, guardava oltre anche se parlava e ci diceva che si poteva lottare...». «Borsellino ci diceva che dovevamo lottare - sospira Letizia - analizzava i fatti, le circostanze, ma sapeva quello che sarebbe successo perché conosceva le dinamiche, sapeva chi erano i suoi nemici, lui era consapevole che non potevano tenerlo in vita». «Sono stati anni incredibili e forse i più ricchi della nostra vita perché abbiamo creduto che si potesse lottare, che si potesse sconfiggere anche nel dolore della morte suprema, perché erano morti anche altri giudici, altrettanto degni, altri poliziotti, altri carabinieri, tanti morti ammazzati... Sono stati gli anni forse più degni di essere vissuti, perché quando credi nella lotta per la giustizia questo ti riempie la vita». Ed è quando il ricordo sfiora la giornata del 19 luglio 1992 che il cuore di Letizia comincia ad accelerare il suo battito. «Quel pomeriggio ero con mia mamma, da anni ogni domenica pomeriggio stavo con lei. Mi ricordo che avevamo parlato di tutto quello che era successo dopo la strage di Falcone. Mancavano pochi minuti alle 5, sentimmo un grande boato, dopodiché credo che sentimmo alla televisione che era successo qualcosa. Chiamai Franco Zecchin che era a casa e poco dopo lui passò a prendermi di corsa. Non sapevamo di Borsellino, non sapevamo niente». «Arrivammo lì e c’era la devastazione – la voce di Letizia si appesantisce parola dopo parola – ricordo che non ho voluto fotografare, non volevo fotografare pezzi di corpi...  Neanche lo voglio ricordare com’era Borsellino. Eravamo lì attoniti, davanti a noi la gente piangeva. Poi ricordo il silenzio, un silenzio così rispettoso che è abbastanza inusuale nella nostra terra dove la gente è vociante ed esprime a voce alta i suoi pensieri, invece lì ricordo i silenzi immobili… Ricordo tutti che correvano o camminavano scavalcando pezzetti di corpi umani, io non mi avvicinai neanche, ero lì, vedevo tutto e non alzai la macchina fotografica». «Oggi mi dispiace - si rammarica Letizia - perché sicuramente è bene essere testimoni e documentare e raccontare al mondo quello che è avvenuto, ma allora io non ebbi più la forza, non l’avevo più da un po’ di tempo, non ce la facevo più a fotografare tutto questo dolore, tutta questa disfatta che ormai era arrivata con Falcone e Borsellino ammazzati, eravamo arrivati al peggio che potevamo…». «Qualunque creatura che venga ammazzata è il peggio - evidenzia la fotografa palermitana - però da un punto di vista sociale, politico i due giudici erano simboli della giustizia, lo erano per noi tutti, forse anche per il mondo intero...». «Non era possibile immaginare una cosa simile. In quei momenti io non ho visto nient'altro... non ho visto qualcuno che portava via una valigetta... non ho visto niente.... In quegli istanti io non capivo niente... però sicuramente si stava muovendo qualcosa di ancora peggio che aveva proprio il compito alterare la verità...». Dolore e amarezza si fondono nell'animo di Letizia mentre ricorda il giorno dei funerali degli agenti di scorta di Borsellino. Rivede se stessa che corre da Corso Vittorio Emanuele verso la Cattedrale insieme alle donne di Mezzocielo e quell'uomo delle forze dell'ordine che non vuole farla passare e che la blocca. Letizia si divincola, grida la sua indignazione, si libera da quella morsa e insieme alle migliaia di palermitani che rompono i blocchi delle forze dell'ordine riesce ad entrare in chiesa. Ma quel suo gesto di ribellione le costerà un avviso a comparire davanti l'autorità giudiziaria. «Arrivai in quell'ufficio - ricorda Letizia - e dissi al funzionario che mi interrogava: “Mi sembra una cosa incredibile, andavamo lì a piangere, gli assassini non sono stati arrestati e volete incriminare me perché ho fatto un gesto in un momento così terribile?!... Non ci si poteva impedire dopo tanta sofferenza di andare a piangere lì in quel luogo...”». L'impiegato tace e verbalizza, la pratica verrà chiusa successivamente senza alcun risvolto giudiziario. «Non credo che arriveremo alla verità, dopo tanti e tanti anni - la disillusione di Letizia supera quegli argini già travolti da altre piene della sua esistenza - Falcone e Borsellino sono stati ammazzati quasi venti anni fa, io sono molto scoraggiata, in questi ultimi anni ho sempre pensato che sono morti invano nonostante il loro lavoro giusto, attento, generoso… hanno vissuto una vita durissima, non avevano libertà, niente di quello che abbiamo tutti noi. Sono morti, non ci sono più... i figli di Borsellino non hanno mai più abbracciato il loro padre e tutti quelli che sono rimasti della sua famiglia e tutti noi, ce li hanno tolti e non si capisce dove siamo arrivati...». «Sono scoraggiata, delusa, ho tanta rabbia addosso... La rabbia non è bella, ma è sete di giustizia! E' la voglia di capire come hanno fregato noi e tutti quelli che sono morti. Noi abbiamo vissuto una vita umiliante, in balia di un sistema di potere che è disposto a tutto pur di gestire soldi e potere politico. E questo vale per tutti i politici che si sono avvicendati, quelli che c’erano prima e quelli che sono venuti dopo». La violenza di quegli anni si radica nell'anima di questa donna ed erode quel debole filo di speranza che si muove nei suoi pensieri. «Io sarei molto felice di finire la mia vita conoscendo la verità e sapendo che la giustizia è arrivata - la voce di Letizia è ormai un soffio - non solo sapendo chi è stato e perché, ma ancora non ho la sensazione che la maggior parte delle coscienze si stia ribellando, io vedo molte coscienze addormentate. Non c’è un popolo in rivolta. Ci sono piccoli gruppi di giovani che vogliono lottare contro la mafia e vogliono vivere una vita onesta ma comunque sia sono piccoli gruppi, piccoli giornali come il vostro, piccoli gruppi di gente brava che vuole un mondo migliore, ma non ci siamo ancora arrivati... e mi dispiace tanto che la lotta debba essere solo dei magistrati e delle forze dell'ordine. Ma ora basta...». Interrompo la registrazione. La sua soglia del dolore è stata ampiamente superata. La ferita di un cuore che ha amato tanto non si rimargina mai. Aspetto che quel mare in tempesta si plachi. «Andiamo avanti - mi dice improvvisamente Letizia - continuiamo a lottare e vediamo che succede, giorno per giorno...».

*tratto dal libro “Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino” (G. Bongiovanni e Lorenzo Baldo, Aliberti)

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