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ingroia c giorgio barbagallo 2di Antonio Ingroia
Se il nuovo Codice Antimafia doveva rappresentare un salto di qualità anche nella lotta alla corruzione, per colpire finalmente i colletti bianchi che intascano laute mazzette, il testo in via di approvazione al Senato costituisce una enorme delusione, l’ennesima occasione mancata di una legislatura segnata da troppi compromessi al ribasso. Ancora una volta le buone intenzioni si sono tradotte in soluzioni di modesta efficacia, per lo più controproducenti, che poco o nulla potranno cambiare le cose, se non in peggio.
Pesa molto, nel giudizio negativo, il vistoso passo indietro fatto, rispetto al testo licenziato dalla Camera, con l’emendamento approvato su proposta dal Pd che limita l’applicabilità delle misure di prevenzione ai soli casi in cui insieme alla corruzione viene contestata anche l’associazione per delinquere. In pratica, per i reati contro la Pubblica amministrazione sarà possibile procedere al sequestro e alla confisca dei beni (come già accade per i mafiosi grazie alla legge La Torre-Rognoni del 1982) solo se questi reati saranno commessi in forma associativa. È chiaro che si tratta di una modifica che limita di molto l’auspicata espansione dell’ambito di applicabilità delle misure di prevenzione ai fenomeni corruttivi, essendo noto che sono rarissimi, anzi quasi inesistenti, i casi in cui chi è indagato per corruzione è anche indiziato di associazione per delinquere. Modificare la legge in questo senso significa dunque varare una norma simbolo condannata alla disapplicazione. E questo per la semplice ragione che la corruzione, al contrario della mafia, si realizza non come fenomeno associativo ma sistemico, non perciò meno grave. Non solo. Per il Senato un truffatore è più pericoloso di un politico corrotto. Infatti, secondo la nuova legge, solo il truffatore è così pericoloso da prevedersi il sequestro di prevenzione nei suoi confronti, mentre il corrotto per essere considerato pericoloso deve anche essere membro di un’associazione per delinquere. Incredibile. Ancora una volta dalla classe politica viene una scandalosa autoassoluzione. Oltretutto, dato che, come si è detto, la corruzione è un fenomeno criminale di tipo sistemico e non associativo come la mafia, affrontarla con il modello associativo è un grave errore di tipo metodologico, investigativo e criminologico. Un approccio inappropriato, che condanna il nuovo strumento all’inutilità. Con l’effetto ulteriormente deleterio che la modifica legislativa costituirà un alibi: si dirà che non si poteva fare di più, col risultato di paralizzare ogni ulteriore intervento. Ma la lotta alla corruzione richiede invece una terapia d’urto e le misure di prevenzione lo sono. Certo, non vanno applicate in modo indiscriminato, sparando nel mucchio, e vanno quindi limitate ai reati più gravi. In tali casi, però, quelli dei politici corrotti e concussori, non andava aggiunto il requisito ulteriore dell’illecito associativo perché così si vanifica ogni concreta possibilità di applicare il sequestro e la confisca dei beni.
Il Parlamento, invece, ha purtroppo preso un’altra strada, perdendo una epocale occasione per cambiare verso. Tanto vale, con queste prospettive, lasciar perdere e rimandare tutto alla prossima legislatura, in modo che se ne occupi un Parlamento che sia pienamente legittimo, non un Parlamento di inquisiti e per di più eletto con una legge incostituzionale. Sarebbe anche un modo per stanare i partiti e vedere in campagna elettorale chi davvero vuole fare una seria ed efficace lotta alla corruzione e chi invece vuole lasciare tutto com’è. Allora, meglio rinviare anziché ingoiare questo brutto pasticcio, una clamorosa retromarcia che pare il frutto dei soliti accordi parlamentari sottobanco. Altrimenti significherebbe darla vinta al partito dell’impunità. Ancora una volta.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano del 30 giugno 2017

Foto © Giorgio Barbagallo

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