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travaglio c daniela parra saiani pacific press via ZUMA Wiredi Marco Travaglio
Nel Paese dove tutto è possibile, soprattutto per i criminali, una delle pochissime cose impensabili era il ritorno a casa di Totò Riina. Ora non più: la Cassazione ha accolto il ricorso dell’ex (?) capo di Cosa Nostra contro la decisione del Tribunale di Sorveglianza di Bologna, che lo scorso anno gli aveva respinto una richiesta di differimento della pena o, in subordine, di arresti domiciliari per gravi motivi di salute. Secondo la Suprema Corte, il diniego trascurava “il complessivo stato morboso del detenuto e le sue condizioni generali di scadimento fisico”, negando il suo “diritto a morire dignitosamente”. Non potendo negare lo “spessore criminale” del mandante n. 1 di tutte le stragi mafiose, gli alti giudici invitano quelli bolognesi a rivedere la loro decisione, misurando l’attuale pericolosità del detenuto alla luce dell’età e della malattia. Come se tre anni fa Riina, già malato, non fosse stato intercettato nell’ora d’aria mentre si vantava delle stragi Chinnici, dalla Chiesa, Falcone e Borsellino e ne ordinava una nuova contro il pm Nino Di Matteo. E come se recenti intercettazioni non dimostrassero che Riina rappresenta tuttora il capo indiscusso (due picciotti intercettati poco prima della morte di Provenzano dicevano: “Finché sono in vita lui e Riina, sarà impossibile riorganizzare Cosa Nostra”). Ora l’ultima parola spetta al Tribunale bolognese, che si spera motiverà meglio la necessità che Riina resti in carcere. Ma intanto una breccia s’è aperta anche nell’ultimo muro della repressione italiana che pareva imperforabile: l’ergastolo “ostativo”, cioé incompatibile con i benefici carcerari per gli stragisti al 41-bis.

Prima che scatti il solito derby della chiacchiera fra “garantisti” e “giustizialisti”, gli uni dipinti (da se stessi) come depositari dei sentimenti di umanità e gli altri come feroci aguzzini assetati di sangue e manette, mettiamo in fila qualche dato di fatto per sapere di che parliamo.

1) L’ergastolo ostativo è una legge dello Stato che contempla, in re ipsa, la possibilità che il detenuto a vita resti in carcere fino alla morte. Càpita ogni giorno che qualche carcerato defunga nella sua cella per cause naturali, senza che si possa sostenere che sono stati lesi i suoi diritti.

2) Il diritto a una “morte dignitosa” spetta anche al peggiore degli assassini, ma può essere garantito nelle strutture ospedaliere o infermieristiche di un carcere, dove un personaggio del calibro di Riina gode di un’assistenza medica che non avrebbe fuori.

3) Provenzano e altri boss al 41-bis, anche molto meno pericolosi e meno importanti nella gerarchia mafiosa, sono morti in carcere. E nessuna Cassazione s’è sognata di mandarli a casa. Eppure erano note da tempo le loro condizioni di non autosufficienza, ben più gravi di quelle di Riina.

4) Riina non sta benissimo, ma neppure malissimo. È malato da anni, ma cosciente, vigile e capace di intendere e volere: infatti ha assistito regolarmente alle oltre 150 udienze del processo sulla trattativa Stato-mafia, in videoconferenza dal carcere di Parma (cosa che non potrebbe più fare se tornasse a casa). In tre anni ne ha mancata una sola, un paio di mesi fa, perché ricoverato in ospedale e intrasportabile: e, non avendo rinunciato al diritto a presenziare, quell’udienza è stata rinviata. Ma ancora dieci giorni fa Totò ’u curtu ha preso parte all’udienza, essendo ritenuto dai medici capace di comparire coscientemente (cosa che non fu per Provenzano, nei cui confronti il processo Trattativa fu sospeso sine die). Non solo: Riina ha incontrato anche di recente i parenti e, per la prossima udienza di giovedì 8 giugno, i legali non hanno comunicato alcun suo impedimento alla Corte d’Assise.

E allora quali elementi di novità hanno spinto la Cassazione a quell’improvvisa e improvvida sentenza? Qui entriamo nel processo alle intenzioni e preferiamo evitare la dietrologia. Ma qualche altro fatto va ricordato, per comprendere le conseguenze di una scarcerazione. Il 30 gennaio, a sorpresa, Riina si dice pronto, tramite il difensore, a farsi interrogare per la prima volta in vita sua da pm, giudici e avvocati del processo Trattativa (diversamente da Brusca, Bagarella, Dell’Utri, Ciancimino, Mori, Subranni e Mancino). Poi il 9 febbraio, dopo un colloquio con i suoi legali, altra sorpresa: annunciato personalmente il dietrofront (“Sto male, ho un problema”). A che gioco gioca Riina proprio nella fase finale del processo Trattativa? Che segnale è, e a chi, quella disponibilità a parlare poi revocata 10 giorni dopo, nel processo che vede alla sbarra uomini della mafia e dello Stato? E che segnale è, e a chi, questa improvvisa e immotivata apertura dello Stato proprio e solo a lui (che non è certo l’unico malato fra gli stragisti detenuti né tantomeno fra gli ergastolani)? Dal “papello” in poi, fu proprio Riina a dirsi pronto a “giocarmi i denti” contro l’ergastolo e il 41-bis, i due formidabili incentivi al pentitismo voluti da Falcone e tradotti in legge in coppia solo dopo le stragi di Capaci e via d’Amelio. Il fatto che si trovi una scappatoia all’ergastolo e al 41-bis proprio per Riina, ad personam, sarebbe un messaggio simbolico devastante non solo per lui, ma anche per tutti gli altri mafiosi detenuti e non. Soprattutto per i Graviano e Bagarella, che custodiscono gli inconfessabili segreti delle stragi, magari nella speranza di barattare il loro silenzio con la scarcerazione. Che, se si aprono le porte del carcere per Riina, sarà non più impensabile, ma addirittura possibile. Un segnale di incoraggiamento per chi, dopo oltre 20 anni di isolamento, rischia di cedere e di parlare: resistete ancora un po’ e una soluzione per far uscire anche voi la troviamo; il silenzio è d’oro, infatti lo paghiamo a peso d’oro.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano del 6 giugno 2017

Foto © Daniela Parra Saiani/Pacific Press via ZUMA Wire

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