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scarpinato scorta c letizia battagliadi Giorgio Bongiovanni e Lorenzo Baldo
«La rimozione non rimuove i problemi anzi li perpetua e li aggrava, perché nell’acqua che ristagna si forma il veleno che corrode la psiche dell’individuo e la democrazia di un Paese». Le parole dell’attuale procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, scandite alcuni anni fa al convegno intitolato “Quale mafia ha ucciso Paolo Borsellino?” restano più che mai attuali.
Quel giorno Scarpinato si era addentrato nei labirinti di ciò che lui stesso aveva definito «cervello borghese e lupara proletaria» affrontando l'inevitabile connubio di quei «sistemi criminali» che ben conosce. Ma è nella parte finale del suo intervento che aveva risposto alla domanda scritta nei manifesti richiamando alla memoria «una storia antica, ma sempre attuale, avvenuta circa duemila anni orsono: la condanna a morte di Gesù Cristo». Il parallelismo citato dal magistrato aveva rapito letteralmente i presenti. «Ho provato a chiedere in questi giorni a degli amici, chi fu il responsabile della morte di Gesù Cristo. Alcuni mi hanno risposto Caifa e i sacerdoti del sinedrio, altri Ponzio Pilato, altri Giuda. Tutti hanno dimenticato che il vero ed ultimo responsabile della morte di Cristo fu il popolo». «Pilato – aveva spiegato con dovizia di particolari Scarpinato – poiché in occasione della Pasqua aveva la possibilità di graziare un condannato, si rivolse al popolo e chiese di scegliere tra il ladrone Barabba e Gesù Cristo. Il popolo gridò all’unisono: “crocifiggi Cristo e salva Barabba”. Gli storici si sono interrogati su questo comportamento del popolo e quindi sul rapporto tra giustizia e democrazia. Ciò tenuto conto che in mezzo al popolo c’erano molte persone che fino al giorno prima avevano osannato Cristo quando faceva i miracoli». «Alcuni dicono che i sacerdoti del sinedrio avevano pagato vari sobillatori confusi in mezzo al popolo i quali avevano il compito di orientarne gli umori. Altri sostengono che in mezzo alla folla vi erano anche degli estimatori di Cristo che, tuttavia, ebbero paura di chiedere la sua salvezza temendo ritorsioni personali e si accodarono a quelli che votarono per Barabba. Altri dicono che molti votarono per Barabba invece che per Cristo perché la salvezza di Cristo avrebbe determinato la delegittimazione dei sacerdoti del sinedrio che ne avevano voluto la morte forzando la mano a Pilato e quindi una grave crisi politica dello Stato di Israele che avrebbe favorito il potere dell’invasore romano». Circondati dalla cornice del parco della “Favorita” le persone avevano ascoltato in assoluto silenzio la regressione storica sui colpevoli di quella condanna a morte. «Altri ancora dicono che alcuni votarono Barabba delusi dal fatto che il Cristo dei miracoli si era rivelato un uomo impotente e che poteva essere deriso e gli voltarono le spalle. Altri infine sostengono che una parte del popolo votò Barabba perché, sì era un ladro, ma era anche un capo popolo che distribuiva parte dei proventi alle masse e quindi ne guadagnava il consenso. Forse tutte queste ragioni ed altre ancora sono vere. Un impasto inestricabile di ragioni di Stato, il potere romano, l’interesse di classe, di sacerdoti del sinedrio, di piccole viltà, di opportunismo individuale, di ingenuità, dunque tutto questo mandò a morte Cristo». Per Roberto Scarpinato si trattava dunque di «una storia antica ma eterna e paradigmatica». «Ciascuno di noi – aveva proseguito il magistrato – potrebbe esercitarsi ad attualizzare questa storia nei nostri giorni dando un volto e un nome ai sacerdoti del sinedrio, a Pilato, a Giuda, ai troppi che in questi anni si sono dileguati, che sono stati alla finestra o si sono accodati al coro di “crocifiggi”, a volte per mero opportunismo, a volte per viltà o per calcolo politico. Allora rispondere alla domanda del convegno “quale mafia ha ucciso Paolo Borsellino?” ci porterebbe molto lontano, fin dentro noi stessi, dentro la nostra storia e il male oscuro di una intera società. Poichè dietro gli esecutori materiali ci sono i capi di Cosa Nostra e poi ci sono i mandanti a volto coperto e dietro costoro vi è il “gioco grande” del potere che, oggi come ieri, non può permettersi la verità». «Dietro il gioco grande del potere ci siamo noi – aveva sottolineato con forza Scarpinato – e persone come noi, oggi come ieri, la maggioranza di Barabba. Forse qualcuno penserà che sia eccessivo accostare alla memoria la condanna a morte di Cristo alle vicende di oggi, ma ricordando Paolo penso che ciò sia dovuto. Non solo perché Paolo era credente ma anche per un altro motivo». Ed è in quel preciso istante che le parole di Roberto Scarpinato erano andate a toccare le corde di un dolore mai placato. «Dopo la strage di Capaci le bare di Giovanni Falcone e Francesca Morvillo furono esposte nell’atrio del palazzo di Giustizia. Un fiume di gente di tutte le età e di tutte le estrazioni sociali sfilò dinanzi alle bare. Molti erano commossi e piangevano. Paolo io e altri magistrati antimafia eravamo scoraggiati, alcuni pensavano di andar via. Ad un certo punto Paolo, vedendoci in quello stato d’animo, ci disse: “Ragazzi vi parlo come un padre, come un fratello maggiore, ho il dovere di dirvi che non possiamo farci illusioni, se restiamo, il futuro di alcuni di noi sarà quello!”. Con una mano indicò le bare di Giovanni Falcone e Francesca Morvillo. Poi aggiunse: “Io resto e resto solo per loro” e con una mano indicò la folla. Paolo disse: “Non posso lasciarli soli!”». Il ricordo di Roberto Scarpinato si era stemperato intensamente sotto un cielo che sembrava dipinto. «Il 19 luglio, quando in via d’Amelio vidi il corpo di Paolo quelle parole mi ossessionavano. Quell’uomo aveva scelto di morire per Amore, perché era innamorato del destino degli altri. C’era molto di più del senso del dovere di cui si parla nella retorica ufficiale, c’era qualcosa di grande che si chiamava Amore». La voce del magistrato era volata sui tetti di una città addormentata ed era divenuta una preghiera laica che mirava al centro della complice indifferenza di questa metropoli. «Non tradiamo questo atto d’Amore e ricambiamo, restando sempre e comunque al nostro posto. Non molliamo! Qualunque cosa sia accaduta qualunque cosa dovesse accadere. Non cediamo mai alla tentazione, per calcolo, per viltà o per stanchezza di accodarci alla maggioranza di Barabba».

*da una rivisitazione del capitolo “Cristo o Barabba” tratto da “Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino” (G. Bongiovanni, L. Baldo - Aliberti)

In foto: Palermo, 1998. Il magistrato Roberto Scarpinato con la sua scorta © Letizia Battaglia

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