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il bandito della guerra freddadi Pietro Orsatti
Tratto dal libro “Il bandito della Guerra fredda” di Pietro Orsatti pubblicato da Imprimatur editore e in libreria dal 30 marzo 2017.

Si sale da Palermo verso Bellolampo, ed evitata la deviazione che conduce a quella che è tuttora una delle più grandi discariche d’Europa si procede per la strada provinciale. Una manciata di chilometri e si è a Montelepre. Il paese di Salvatore Giuliano. Da qui si vedono Carini, Cinisi, Borgetto, si intuisce Partinico e la valle dello Jato. Prima di raggiungere il crinale e raggiungere Montelepre, la Conca d’Oro che fu – cancellata dal sacco di Palermo gestito a partire dal 1957 dal sindaco Salvo Lima e dal suo assessore ai lavori pubblici Vito Ciancimino – porta su fino alle montagne l’odore di mare. Agli occhi, da qui, appare un panorama che, anche se sfregiato, lascia senza fiato.
Riguardo il film di Francesco Rosi, Salvatore Giuliano, girato nel 1962, pochi anni dopo il processo farsa di Viterbo sulla strage di Portella della Ginestra. I luoghi sono i medesimi: la stessa arsura, gli stessi profili duri delle montagne, la valle che declina verso Palermo e quella che scende verso Alcamo e Salemi. La natura in qualche modo ha mitigato lo scempio urbanistico e protetto la memoria. Più in alto, nascosta nella terra dei contadini arbëreshe, c’è Portella della Ginestra. La prima volta che ci sono stato, in quella piana lunare circondata da vette aspre e modellate dal vento, è stato per puro caso. Un viaggio in moto più di vent’anni fa. La sensazione che provai, attraversando quel vuoto di pietra, pascoli riarsi e cielo così accecante, è che fossi andato a sbattere contro un pezzo di storia. Mi fermai vicino a un parcheggio, costruito nel nulla. Silenzio assoluto. Mi tolsi il casco, e solo allora vidi le pietre trasformate in stele. E capì dove ero.
Verso occidente Alcamo, Castellammare del Golfo, Salemi e poi ancora, invisibile e solo apparentemente irraggiungibile, Castelvetrano, dove si concluse nel 1950 la breve vita del bandito Giuliano e si cristallizzò la sua leggenda. Nel film di Rosi il volto del bandito che per sette anni insanguinò il palermitano e parte del trapanese non si vede mai, se non quando la telecamera inquadra il cadavere. Il regista utilizzò questa tecnica per lasciare nello spettatore la sensazione che tutto quello che veniva raccontato su Giuliano continuasse a rimanere un mistero. Impalpabile come un brogliaccio della commedia dell’arte che di volta in volta, a seconda degli umori del pubblico e dei commedianti, muta. Una traccia per orientarsi, e poi si va a braccio. Come a braccio si andò nel “teatro” messo in scena per la sua uccisione. E come, del resto, anche nell’incredibile spettacolo dell’assurdo che fu il processo di Viterbo sulla strage del primo maggio 1947. Un mistero che abbiamo ereditato, e le cui implicazioni non abbiamo mai smesso di pagare, fino a oggi.
Da quel film – fotografia, anche se incompleta, di un pezzo irrisolto della storia italiana – bisogna partire per ricostruire e interpretare quella che fu la grande messinscena che ebbe come protagonista il bandito Giuliano. Un ventunenne che, in pochi mesi, da figlio di un ricco agricoltore di Montelepre che aveva fatto i soldi emigrando negli Stati Uniti si trasformò prima in “brigante”, poi in simbolo del separatismo siciliano come “colonnello” dell’Evis (Esercito volontario per l’indipendenza della Sicilia, il braccio armato del movimento separatista), ancora in strumento della reazione post-fascista contro le lotte in opposizione al latifondismo e allo sfruttamento dei braccianti guidate dalle sinistre e, infine, in criminale senza bandiera che si dedicava a rapine e rapimenti. Morto che non aveva ancora compiuto trent’anni, si era già trasformato da vivo in icona e leggenda popolare.
Ma la storia vera di Giuliano, quella che si riesce parzialmente a ricostruire dai documenti che solo oggi, con il contagocce, diventano pubblici, è ben diversa da quella raccontata – con tanto di tabelloni disegnati – dai cuntastorie siciliani. E vedremo come, con sconcerto, passo dopo passo; perché per avere un frammento di verità su questa storia bisogna farsela pietre pietre, faticando, perdendosi più volte, deviando dal sentiero segnato per tracciare nuove mappe.
Rosi descriveva così il proprio modo di raccontare Giuliano: «l’emozione della ricostruzione». Un’emozione fatta di vuoti, di assenze, di simboli che non diventano mai verità in un cantiere a cui manca sempre un piccolo pezzo. La stessa emozione che trovo, ora, non solo nel cercare senso alla storia intricata ed emblematica del bandito, ma anche nel ricostruire e disegnare con chiarezza – anche se tanti tasselli rimangono mancanti nonostante il sollevarsi progressivo del velo del segreto di Stato sia negli Stati Uniti che in Italia – lo scenario in cui la vicenda di Salvatore Giuliano (e di quegli anni) si snoda, indagando le ragioni per le quali venne costruita una delle più grandi montature che abbiano segnato la natura stessa della Repubblica italiana. Una montatura che è anche un metodo di azione e manipolazione dell’informazione e della politica, il quale ha profondamente influenzato questi settant’anni – e oltre – e la nostra vita. La vita di ciascuno di noi. Un futuro, si può quasi dire, già manipolato alla nascita. Che ha lasciato un solco profondo nella fibra più intima della nostra identità di cittadini e di nazione.
orsatti il bandito libroTutto quello che conosciamo sulla vita di Salvatore Giuliano è sia parzialmente vero che parzialmente falso. Perfino il processo di Viterbo sulla strage di Portella della Ginestra nei fatti rappresentò soltanto il palcoscenico dove andò in scena un incredibile numero di depistaggi e di intimidazioni incrociate a discapito della ricerca della verità. Giuliano è e rimane uno dei misteri insoluti della storia italiana: paradossalmente, non per mancanza, quanto per eccesso di fonti. Può capitare, ad esempio, di trovare tracce di Giuliano in documenti sparsi in archivi di mezzo mondo e poi imbattersi, casualmente, in sue fotografie inedite al mercato di Ballarò, a Palermo; trovare tracce dei soldi che tentò di mandare, negli ultimi anni di vita, all’estero – immaginando, probabilmente, di poter fuggire negli Stati Uniti – e il giorno dopo incontrare qualcuno che a casa conserva ancora qualche bossolo raccolto da suo nonno sulla scena della strage di Portella della Ginestra; possiamo rinvenire cenni del bandito in rapporti dei servizi segreti inglesi e americani che lo indicano come NP (Nuotatore Paracadutista) arruolato nella X Mas del principe nero Junio Valerio Borghese e poi ritrovare, sbucato fuori nello sgombero di una soffitta, un vecchio volantino con un suo proclama. Ci sembra di sapere tutto e poi, davanti a così tante fonti, ci accorgiamo di sapere poco, se non niente.
A rendere tutto ancora più complicato è il valore simbolico della figura di Giuliano. Il bandito, erede moderno dell’antica tradizione rurale del brigantaggio; il simbolo dell’insurrezione indipendentista siciliana; l’uomo coinvolto nelle operazioni dei servizi segreti Usa; lo stragista legato ai “partigiani” del regime e in particolare alla X Mas, nonché il killer mafioso – e la sua appartenenza alla mafia oggi emerge con chiarezza come indubbia si fa la sua “formazione” fascista –; lo strumento di quei ceti parassitari del sistema politico-economico che reagivano davanti alla vittoria del Fronte popolare alle elezioni del ‘47 in Sicilia: ognuna di queste categorie, di queste facce, di questi ruoli viene esaltato nella memoria culturale, iconografica, giornalistica, pubblicistica e perfino cinematografica, ancor più nella tradizione orale di canzoni e racconti popolari ispirati alla sua figura.
Giuliano è figura paradigmatica di quel periodo storico, simbolo di un’Italia che non ha mai del tutto rimosso il fascismo dal suo DNA, precursore di quell’organica connivenza “fascio-mafiosa” mai dissoltasi: un ambiente “sommerso” ma non di secondo piano, elemento politicamente ed economicamente attivo perfino oggi, come ci dimostrano le recenti vicende romane di Mafia Capitale e la provenienza politica del “Mondo di Mezzo” di Massimo Carminati e soci. Nel bandito siciliano, protagonista degli esordi della Guerra fredda in Italia, stragista della prima ora e precursore della cosiddetta “strategia della tensione”, si incarnano più livelli e piani, più progetti e trame, che infine si riducono a una: sovvertire e manipolare la democrazia, i processi di partecipazione democratica, le istanze provenienti dal basso. E inevitabilmente questa manipolazione, che qualcuno ha chiamato “sovranità limitata”, scattò immediatamente dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia nel 1943.

Per informazioni: www.imprimatureditore.it - ilbanditodellaguerrafredda.wordpress.com