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fo jacopo dario sgL’intervista al figlio del premio Nobel scomparso all’età di 90 anni
di Michela Tamburrino
Jacopo Fo era tornato da alcuni giorni a Milano. Da quell’università di Alcatraz in Umbria, messa in piedi grazie all’entusiasmo suo e di Dario. Adesso si sente un po’ più solo pur se con un’eredità dall’enorme valore. E la dolcezza di un bacio ricevuto in punto di morte.

Jacopo, che cosa le ha lasciato suo padre?
«La certezza che la condivisione sia alla base della vera ricchezza. Condivisione e passione. Mio padre e mia madre vivevano così, concepivano l’arte come impegno civile al pari della solidarietà. Vivere pienamente la storia d’amore e la relazione con gli altri. Loro parlavano ma soprattutto ascoltavano le persone bisognose perché l’ascolto è una grande medicina che calma il dolore. Quando qualcuno ti fa del male e ai miei genitori ne hanno fatto, la vendetta non serve, come diceva Mandela è più utile raccontare, non tenersi dentro la sofferenza».

E lei da figlio veniva ascoltato da suo padre?
«Io ho la soddisfazione di aver lavorato con i miei genitori che è molto di più, non c’era solo il rapporto padre figlio tra di noi. A 18 anni appena finita la scuola mio padre mi disse che voleva 30 maschere e che dovevano essere pronte in un mese e mezzo. Io non sapevo come fare, lui mi prese per mano e mi insegnò, mi disse dove dovevo andare, da chi dovevo imparare. Ebbe le sue maschere nei tempi giusti. Mio padre lavorava molto sulla fiducia, così ti sentivi più forte e davi il massimo. Era una modalità felice del suo lavoro».

E l’Università di Alcatraz a chi venne in mente?
«Papà voleva mettere in piedi una scuola di teatro ma non si capiva ancora dove. Io vedevo che i boschi intorno a casa mia venivano distrutti. Gli dissi come fosse una provocazione: “Compriamo i terreni qui intorno, salviamo i boschi e facciamo la scuola”. Temevo mi prendesse per scemo, invece ne fu entusiasta».

Ci sono stati degli episodi che hanno fatto indignare suo padre?
«Quando fu cacciato da Canzonissima in Rai. Tutti dissero che era successo perché aveva denunciato gli incidenti sul lavoro. Ma non era così o lo era solo in piccola parte. La censura arrivò perché nel 1962 in televisione, lui si era permesso di parlare della mafia. Malagodi in Parlamento si scagliò contro i miei genitori chiamandoli “guitti”, colpevoli a suo avviso di aver denigrato tutta la popolazione siciliana. Fu pazzesco».

E che cosa lo feriva?
«Quando scrivevano che essere ribelle gli era convenuto. Frasi ignobili che leggo ancora adesso. Un’infamia che prescinde da quanto accadeva in famiglia, io scortato a scuola dai carabinieri perché ci era arrivata una lettera anonima scritta con il sangue nella quale si spiegavano tutte le sevizie che avrei subito prima di essere sgozzato. Senza parlare di tutto il resto».

Fu molto stupito quando seppe che gli avevano dato il Nobel?
«Felice tantissimo ma non troppo stupito. Da sempre mia nonna continuava a ripetergli: “Tu vincerai il Nobel”».

Tratto da: lastampa.it

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