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mori cavalli carabinieridi Antonio Ingroia
Le sentenze parlano, ma se ad alcune è concesso di gridare ad altre è permesso solo di bisbigliare a bassa voce. E’ il doppio binario della nostra informazione: ci sono notizie che viaggiano sulla linea veloce e arrivano subito in prima pagina e altre, non meno importanti, che sono invece costrette ad arrancare, infilate nelle brevi dei tg o strette in qualche trafiletto ben nascosto nelle pagine di cronaca. Così, negli ultimi giorni, abbiamo letto titoloni scomposti sui principali quotidiani, abbiamo visto ampi servizi nei tg e abbiamo sentito urla e insulti in prima serata sulla tv di Stato dopo l’assoluzione in appello dell’ex generale del Ros Mario Mori e dell’ex colonnello Mauro Obinu dall’accusa di non aver volontariamente arrestato Bernardo Provenzano.

Notizia importante, va dato atto a Mori e ai suoi difensori di essere riusciti ad ottenere l’assoluzione. Però oltre alla celebrazione pressoché unanime dei due ex ufficiali dei carabinieri, dipinti come fedeli servitori dello Stato quando non definiti veri e propri eroi, hanno trionfato anche le immancabili accuse ai magistrati della Procura di Palermo che hanno condotto l’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia e istruito i processi ad essa collegati. Accuse accompagnate dalla richiesta di presentare pubbliche scuse a Mori e agli altri artefici della trattativa in quanto eroi dell’antimafia ingiustamente infangati, e infatti assolti, nonostante l’assoluzione riguardasse solo una delle vicende collaterali della mega-inchiesta trattativa. Non bastasse, si è scatenata subito anche un’improvvisa furia revisionista con cui si è arrivati a mettere sotto accusa chi accusò Contrada e Dell’Utri, pur essendo entrambi ormai imputati condannati in modo definitivo nei tre gradi di giudizio, con sentenza definitiva della Cassazione.

Insomma, l’assoluzione di Mori e Obinu, con tutto il corollario di cui sopra, è stata per qualche giorno sparata con forza praticamente ovunque ed è stata usata come una clava per demolire il processo sulla trattativa, per colpire i magistrati che a quel processo hanno lavorato o stanno lavorando ancora. Pochi, invece, hanno potuto leggere o ascoltare un’altra notizia di questi giorni, non meno importante, anch’essa legata a cose di mafia e alla trattativa tra Stato e Cosa nostra. Lo scorso 20 maggio, infatti, la Corte di Assise d’appello di Firenze ha depositato le motivazioni della sentenza con cui ha confermato l’ergastolo al boss Francesco Tagliavia per la strage di via dei Georgofili del 27 maggio 1993, in cui morirono cinque persone e 38 rimasero ferite. In quelle motivazioni, i giudici tornano sul tema della trattativa e affermano che la trattativa ci fu. Lo avevano già stabilito i giudici di primo grado, quattro anni fa: la trattativa – scrissero – “indubbiamente ci fu e venne quantomeno inizialmente impostata su un do ut des”, per interrompere la strategia stragista di Cosa nostra. E “l’iniziativa fu assunta da rappresentanti dello Stato e non dagli uomini di mafia”.
In appello, con una giuria costituita anche da giudici popolari, questa convinzione è stata ribadita: “Complessa e non definitiva” si legge nelle motivazioni, è la conclusione “alla quale si può pervenire nei limiti del presente processo” sull’individuazione “dei termini e dello stato raggiunto dalla c.d trattativa, la cui esistenza, comprovata dall’avvio poi interrotto di iniziali contatti emersi tra rappresentanti politici locali e delle istituzioni e vertici mafiosi, è però logicamente postulata dalla stessa prosecuzione della strategia stragista: il ricatto – spiegano i giudici – non avrebbe difatti senso alcuno se non fosse scaturita la percezione e la riconoscibilità degli obbiettivi verso la presunta controparte”. E ancora: “Si può dunque considerare provato che dopo la prima fase della c.d. trattativa, avviata dopo la strage di Capaci, peraltro su iniziativa esplorativa di provenienza istituzionale, arenatasi dopo l’attentato di via D’Amelio, la strategia stragista proseguì alimentata dalla convinzione che lo Stato avrebbe compreso la natura dell’obiettivo del ricatto proprio perché vi era stata quella interruzione”. “D’altra parte – aggiungono ancora i giudici – l’oggettivo ammorbidimento della strategia di contrasto alla mafia”, attraverso il mancato rinnovo di oltre trecento provvedimento di 41 bis, “ben poteva ingenerare la convinzione della cedevolezza della istituzioni, anche perché nel frattempo si avvicendavano sulla scena politica nuovi interlocutori oggetto di interesse da parte dell’apparato mafioso i cui referenti furono individuati in Vittorio Mangano e Marcello Dell’Utri”.

Una sentenza che dice dunque cose pesantissime su quegli esponenti dello Stato che trattarono con la mafia e determinarono la spirale che portò poi alle stragi del ’93. Una trattativa macchiata di sangue, i cui responsabili, tanto i mafiosi come gli uomini dello Stato, hanno quindi le mani lorde di sangue. Una sentenza che meriterebbe attenzione e non minore risonanza e invece la notizia è passata praticamente sotto silenzio, ignorata dai grandi mezzi d’informazione, riportata solo da pochi quotidiani e dai siti internet più attenti alle vicende di mafia. Meglio non parlarne. Si celebra Mori ma non si ricordano i morti di via dei Georgofili e le altre vittime innocenti delle stragi mafiose. Quando qualcuno esigerà da quegli uomini dello Stato che chiedano scusa e perdono ai familiari delle vittime di quella trattativa bagnata di sangue? Quando ci si renderà conto che i responsabili di quella trattativa, a prescindere dalla loro responsabilità penale, che verrà decisa in un’aula di giustizia, sono già eticamente e moralmente responsabili di quelle morti? Non ci si può rassegnare alla rimozione. Continueremo a lottare per la verità e per la giustizia, continueremo a porre queste domande per avere finalmente delle risposte.

Tratto da: lultimaribattuta.it

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