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fiorello mancinidi Lorenzo Frigerio
L’ultimo in ordine di tempo è stato Beppe Fiorello che, nella fiction
“Io non mi arrendo” diretta da Enzo Monteleone, ha interpretato il ruolo di Roberto Mancini, il valoroso funzionario della Polizia di Stato che con caparbietà indagò sul traffico dei rifiuti tossici nella “Terra dei fuochi”. Un impegno professionale e civile che, purtroppo, portò Mancini prima alla malattia e poi alla morte nel 2014, causata proprio dai veleni chimici che lui aveva scoperto sotterrati in Campania.

Qualche settimana fa, invece, è andato in onda, invece, “Il sindaco pescatore” per la regia di Maurizio Vaccaro: in questo caso è stato Sergio Castellitto a ridare voce all’ex primo cittadino di Pollica, Angelo Vassallo, vittima di un intreccio di criminalità e corruzione e il cui omicidio è ancora oggi senza verità e giustizia.

E, infine, non possiamo dimenticare il regista de “I cento passi” e di tante altre pellicole di impegno civile, Marco Tullio Giordana, che ha splendidamente realizzato “Lea”, trasmesso in prima serata sempre da Rai 1 a novembre scorso. Un film che è un atto d’amore per ricordare le travagliate vicende della coraggiosa testimone di giustizia Lea Garofalo e di sua figlia Denise, interpretate da due bravissime attrici come Vanessa Scalera e Linda Caridi.

Tre storie vere, ricostruite con attenzione e documentazione, che hanno dovuto misurarsi con la potenza dei loro protagonisti, dovendosi prendere, giocoforza, qualche licenza poetica nel rappresentare le vicende, compresse per ragioni di tempo: trattandosi di film e non di documentari è ovvio e naturale che sia così. È questo il prezzo da pagare perché storie sconosciute alla totalità degli italiani possano arrivare nelle loro case e suscitare domande.

Questa importante e nuova stagione di impegno civile della Rai ci dice molto del significato del servizio pubblico.

Luci e ombre
Fatti i doverosi elogi, arriviamo ad alcune criticità che pure notiamo.

La prima, in parte l’abbiamo già declinata. Siamo di fronte a film, non a servizi di telegiornale. C’è quindi il rischio che, senza un ulteriore lavoro giornalistico di contestualizzazione, si finisca per accettare in modo acritico quanto rappresentato, comprese scelte che finiscono per semplificare quanto è realmente accaduto.

Ecco perché, in tempi non sospetti, quando le fiction venivano dedicate ai boss mafiosi, il nostro Roberto Morrione proponeva che la proiezione di questi prodotti cinematografici fosse supportata da ricostruzioni giornalistiche che servissero puntualizzare le vicende che venivano accennate dalle fiction. Se ne era parlato, grazie a Roberto e anche a Santo Della Volpe, durante le tre edizioni di Contromafie (2006, 2009, 2014), gli stati generali dell’antimafia promossi da Libera.

Una proposta da riprendere, magari proprio da parte della Rai.

La seconda criticità, connessa alla prima, riguarda l’impatto di questi film sui più giovani. Arrivano alla fine del loro ultimo anno di scuola media superiore (sempre che arrivino e non si perdano prima per strada..) a sapere tutto delle guerre puniche e del Risorgimento, fermandosi, nella migliore delle ipotesi alle soglie della prima guerra mondiale. Chi proseguirà poi all’università poi, a meno di seguire corsi specifici, non avrà più la possibilità di misurarsi con la storia recente, dovendo recuperare in proprio.

Il rischio è quindi che gli spettatori più giovani siano portati a considerare queste storie per quello che non sono, cioè finzioni. Non per cattiva volontà ma per mancanza di conoscenze piuttosto. Capita spesso di incontrare nelle scuole o nelle università giovani che nulla sanno di Falcone e Borsellino, figuriamoci cosa possono sapere di queste altre vittime, oggi meritoriamente raccontate nelle ultime fiction.

La terza e ultima criticità ha molto a che fare con la realtà, con quanto cioè sta succedendo in questi ultimi mesi nell’arcipelago variegato del movimento antimafia. L’immagine dell’arcipelago è scelta volutamente per dare conto del fatto che, contrariamente a quanto spesso viene raccontato, non esiste il “partito unico dell’antimafia”. E per fortuna non esiste..

Antimafia vs antimafia
È in atto da alcuni mesi una continua campagna di delegittimazione del movimento antimafia, sviluppatosi negli ultimi trent’anni. Infatti, a partire dal 1982, data dall’uccisione del prefetto dalla Chiesa a Palermo, preceduta da altri omicidi eccellenti, come quello di Pio La Torre, matura nelle frange più attente della cittadinanza la consapevolezza che la partita contro le mafie non potesse essere opera di navigatori solitari, ma andasse accompagnata da un lavoro nelle scuole e nella società. Saranno poi le stragi del 1992/1993 a rilanciare quest’impegno su più larga scala e a trasformare il contrasto alle mafie in un impegno per la costruzione della democrazia in un Paese, come il nostro, dove l’ipoteca esercitata dalla criminalità organizzata e dalla corruzione impedisce da sempre la piena realizzazione del dettato costituzionale.

È in quel crogiuolo di lacrime e sangue che nasce Libera, facendo tesoro proprio delle battaglie condotte fin lì da singoli e sigle, fino a quel momento preziose avanguardie di una società in larga parte disimpegnata sul tema del contrasto alle mafie.

Nell’ultimo anno e mezzo, fibrillazioni e polemiche prima, denunce e indagini poi hanno riguardato alcuni percorsi che in nome della legalità e dell’antimafia si sono costruiti. E questo ha riguardato tanto l’antimafia istituzionale (basti pensare alle vicende di Silvana Saguto, presidente della sezione delle misure di prevenzione del Tribunale di Palermo), quanto l’antimafia sociale (si pensi alla condanna a quattro anni per truffa di Rosy Canale, già presidente del movimento “Donne di San Luca”), per non parlare poi del vero terremoto originato dall’accusa di concorso esterno per associazione mafiosa mossa dalla Dda di Caltanissetta nei confronti di Antonello Montante, già leader di Confindustria Sicilia e consigliere delegato alla legalità di Confindustria nazionale.

Ecco allora che la stessa Commissione antimafia ha iniziato a dicembre una serie di audizioni, volte a comprendere quel vasto arcipelago antimafia di cui si diceva prima, all’ombra del quale – è fuori di dubbio – si sono costruite carriere e compensi.  

Quello che è successo poi però non ci convince, perché non possiamo fare di tutta l’erba un fascio. Abbiamo l’impressione che sia in atto un tentativo di delegittimare l’antimafia e i suoi risultati. Quella che stiamo vivendo è, infatti, una nuova stagione apertasi all’insegna della caccia ai “professionisti dell’antimafia”. L’infelice espressione titolava l’articolo di Leonardo Sciascia, pubblicato dal Corriere della Sera il 10 gennaio del 1987, nel quale lo scrittore denunciava i rischi di un’antimafia che servisse a far carriera, puntando il dito contro il sindaco di Palermo Leoluca Orlando e il giudice Paolo Borsellino, nominato procuratore di Marsala: «Nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso».

L’attacco a Libera
Oggi il copione si ripete e il bersaglio preferito da colpire sembra sia diventata Libera.

L’abbandono, per alcuni anche in polemica, di dirigenti storici ha aperto le danze e alcuni quotidiani e settimanali hanno primo offerto il quadro di un’associazione allo sbando, dilaniata al suo interno.

Vicende dolorose e ancora in corso, perché segnano vite e percorsi che si dividono, ma che non possono mettere in discussione la trasparenza e la pulizia di una realtà come Libera.

Eppure è successo che si sia arrivati a vere e proprie falsità, come quelle pubblicate da Panorama che ha dedicato nelle ultime settimane una serie di articoli a Libera, partendo da un’intervista al magistrato Catello Maresca, che ha dichiarato, tra l’altro: «Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse». Al giornalista che chiedeva se stesse parlando di Libera, Maresca ha risposto: «Libera è stata un’importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione. La ritengo pericolosa».  

Ora, basterebbe un po’ di buon senso per smontare queste falsità e invece luce e verità sui fatti saranno stabilite in altra sede.

Qui ci permettiamo di rammentare che Libera gestisce in tutta Italia solo sei (6!) beni confiscati e, solo lo scorso anno, sono state censite invece oltre cinquecento (500!) realtà che gestiscono immobili sottratti alle organizzazioni mafiose. O ancora di ricordare che le cooperative che danno ai loro prodotti il marchio “Libera Terra” sono fatte da giovani che rischiano in proprio e per aiutare i quali Libera ha raccolto fondi in tutta Italia a sostegno del coraggio e della passione.

Proviamo allora solo a pensare per un attimo cosa sarebbe l’Italia senza la confisca dei beni voluta da Pio La Torre e l’utilizzo sociale promosso da Libera. Oppure cosa sarebbe l’Italia senza il 21 marzo e il coordinamento dei familiari delle vittime innocenti di mafie. O ancora cosa sarebbe l’Italia senza l’instancabile promozione dei percorsi di educazione alla legalità e alla responsabilità nelle scuole e nelle università realizzata da docenti e studenti.

Ecco pensiamoci per un attimo solo.

Questo non significa che Libera sia esente da critiche oppure che non serva fare meglio e bene, prova ne siano i tre passaggi assembleari vissuti lo scorso anno per rilanciare una governance interna a prova di infiltrazioni o di sbandamenti.

Sotto terra
È chiaro, ai pochi che hanno avuto la pazienza di leggerci fin qui, che, quando diciamo o scriviamo quanto detto o scritto, siamo inevitabilmente di parte, in quanto la storia di Libera Informazione, la nostra storia personale sono storie che confluiscono pienamente nel percorso di Libera.

Questo essere di parte però non offusca il nostro giudizio, soprattutto quando vediamo stimati colleghi versare fiumi d’inchiostro, in alcuni casi carichi di rancore, per criticare quell’antimafia che ha dato sostegno e visibilità ai loro articoli, ai loro libri, al loro lavoro, togliendoli dall’isolamento in cui spesso si erano venuti a trovare per il loro coraggio.

Spiace pensare che una temibile “cupio dissolvi” stia ottenebrando il giudizio in alcuni e serva solo a criticare, perdendo di vista le positività oppure – concedeteci il sospetto – a promuovere libri dedicati all’antimafia che non funziona.

Non vorremmo che così facendo, si finisca per lanciare il messaggio che l’antimafia vera non esiste, perché è tutto solo business. Oppure che l’antimafia vera sia solo quella della fiction, quella per cui piangere quando viene giustamente raccontato così bene il sacrificio di tanti “invisibili” come Roberto Mancini, Angelo Vassallo e Lea Garofalo.

Purtroppo il passaggio dalla denigrazione in atto ad altre infelici espressioni è dietro l’angolo; ci basti ricordare quanto ebbe a dire nel 1993 Vittorio Feltri, mai abbastanza censurato, nei confronti di Nando dalla Chiesa, allora impegnato nella campagna elettorale per sindaco della città di Milano: “I dalla Chiesa sono come le patate; la parte migliore sta sotto terra”.

Ecco, non vorremmo, procedendo a rotta di collo lungo questa pericolosa china che si finisse per dire che la migliore antimafia è quella che sta sotto terra…

Tratto da: liberainformazione.org

In foto: l'ex agente della Criminalpol Roberto Mancini e l'attore Beppe Fiorello

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