Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.

ardita sebastiano men.raffSotto l’Etna, nel libro “Catania bene”, il procuratore descrive i patti con Cosa Nostra
di Antonella Mascali
Catania bene di SebastianoArdita, magistrato di punta nella lotta alla mafia (attualmente è procuratore aggiunto a Messina) non è solo un libro sulla sua Catania, sulla storia criminale della città, mai anti Stato, sempre alla ricerca, con successo, di sponde tra i governanti e i colletti bianchi. Catania bene, edito da Mondadori, è anche un testo sull’Italia fatta di patti tra mafiosi e traditori dello Stato. La tesi è cheil modello catanese dell’inabissamento e degli accordi istituzionali è stato il modello vincente, esportato in tutta la Sicilia e adesso ha come progetto lo stravolgimento della democrazia. Con Ardita parliamo del libro, in uscita l’8 settembre, sul terrazzo di un bar di
Catania.

Nel libro racconta che i boss locali con i loro legami politici, negli anni 70-80, sono stati i precursori della trattativa tra lo Stato e la mafia. Quindi lei crede ci sia stato uno scambio tra pezzi delle istituzioni e mafiosi?
Io non manifesto una opinione, espongo un dato di fatto e lo offro alla valutazione del lettore. Trattare con lo Stato, entrarvi in relazione e confondervisi fino a disorientare i semplici cittadini, è stata la nota dominante e vincente della Cosa nostra catanese. Non deve sorprendere perciò se dopo la caduta della dittatura di Riina - di cui pure i catanesi furono alleati- il loro metodo venne esportato nella nuova gestione Provenzano. La trattativa è un modello di governo criminale, non è un reato di per sé e non può identificarsi solo in un processo. Anche perché essendo un “metodo” e non un “fatto” non sempre dà luogo a condotte perseguibili penalmente.

Secondo lei l’inabissamento da sempre della mafia catanese e poi di quella palermitana è un modello pericoloso, che si è esteso a livello nazionale. Cosa sta davvero succedendo?
Se non saremo in grado di controllare i flussi economici di Cosa Nostra - e non lo siamo, specie per quelli originati in tempi più distanti o trasferiti in territori offshore - questo pericolo può diventare concreto. E non c’è bisogno di spiegare il nesso tra finanza e politica, per comprendere quale rischio si corra. Ripulitasi dalle scorie del passato, Cosa Nostra somiglierà sempre più a una loggia segreta dove tutto fa capo alla finanza, e attraverso di essa potrà portare l’assalto al potere politico. Ne otterrà favori, anche a danno dei contribuenti, e lo finanzierà. E poi servendosi della politica tenterà di influenzare tutti i poteri istituzionali.

Lei descrive una città difficile, pervasa dalla mafia e dalla lotta alla sopravvivenza.
A Catania la mafia va oltre Cosa Nostra. Le sue aderenze e il suo metodo hanno lambito e compromesso i poteri pubblici e quelli economici. Vale sempre il principio che se sei pulito niente ti può sporcare, ma devi tenere gli occhi aperti. Al tempo stesso non puoi essere sprezzante verso quanti, vittime o complici, hanno conosciuto solo quel mondo: il riscatto della città deve partire anche dai figli e nipoti di chi è stato invischiato nel sistema criminale affaristi  co-mafioso.Come è avvenuto per Peppino Impastato – al tempo stesso figlio di un mafioso e simbolo della legalità – tutti devono potere scegliere senza essere marchiati a fuoco. Per questo provo fastidio per chi professa una ostentata e sprezzante antimafia, solo perché haavutola fortuna di non essere nato nel ghetto e di non dover dipendere da quel sottosistema per poter sopravvivere.

Lei definisce Catania come una città “ferma”: non crede a uno scatto di reni?
Al contrario, sono convinto della possibilità di riscatto dei catanesi, perché credo nella loro intelligenza e nella loro capacità di lavoro. Solo che mi sento più vicino a quelli che vivono nei quartieri, e sono convinto che senza di loro la partita è persa. Alcuni vorrebbero venirne fuori, cercando ragioni identitarie diverse. Ci siamo mai chiesti perché ci sono giovani di San Cristoforo (quartiere storico della mafia, ndr) che preferiscono aderire ad un gruppo ultras anziché alla squadra di Cosa nostra? E cosa succede quando questo bisogno identitario si scontra con la scoperta che il mondo del calcio è truccato? Siamo capaci di indirizzarli verso qualcosa che dia loro una identità senza essere violenti?


Tratto da: Il Fatto Quotidiano

ANTIMAFIADuemila
Associazione Culturale Falcone e Borsellino
Via Molino I°, 1824 - 63811 Sant'Elpidio a Mare (FM) - P. iva 01734340449
Testata giornalistica iscritta presso il Tribunale di Fermo n.032000 del 15/03/2000
Privacy e Cookie policy

Stock Photos provided by our partner Depositphotos