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battaglia-omicidio-targato-palermo phletiziabattagliadi Francesco Vitale* - 30 giugno 2015
L’intervista del procuratore aggiunto di Roma Michele Prestipino a Marco Lillo sul Fatto di martedì scorso a proposito di Mafia Capitale nella Roma di oggi e della difficoltà di molti osservatori di ammettere l’esistenza della criminalità organizzata come in passato a Palermo, mi ha suggerito alcune riflessioni. La prima è che il verminaio romano di oggi viene da molto lontano. Le amicizie, le collusioni tra il bel mondo capitolino (che non era affatto di mezzo...) e quello siciliano, in ultima analisi con i gruppi di potere mafiosi, o meglio politico mafiosi, risalgono certamente al crepuscolo degli Anni 70 e ai primi 80. E un esempio per tutti aiuta il recupero della memoria in chi in questi ultimi trenta tormentati anni l’abbia per sventura smarrita.

L’esempio riguarda il conte Romolo Vaselli, gran palazzinaro romano (assieme agli Armellini, il cui capostipite fu oggetto del primo tra i pochissimi sequestri di persona organizzato da Cosa Nostra, vedi Pippo Calò, sono tutt’oggi padroni di una enorme fetta del patrimonio immobiliare di Roma), gran viveur e amico personale e socio in affari di Vito Ciancimino, con il quale spartiva i soldi pubblici dell’appalto per la manutenzione dell’acquedotto di Palermo che ovviamente era un colabrodo.
Vaselli e Ciancimino assetavano la città, si spartivano i soldi, facevano lavorare le autobotti private dei padroncini mafiosi e costringevano i palermitani (anche chi scrive) a raccogliere l’acqua nella vasca da bagno per potersi lavare e nelle pentole per poter cucinare.Per non parlare delle scorribande marinaresche di Claudio Vitalone e del bel mondo romano al largo delle Eolie o degli affari di Ciarrapico, che a un certo punto con la società Acquamarcia ha acquistato alcuni dei più lussuosi alberghi di Palermo. Ma qui, a mio avviso, finiscono le similitudini tra la Felicissima e la Capitale. E finiscono esattamente il 6 gennaio 1980, in via della Libertà, poco prima della messa di mezzogiorno, quando un killer solitario e con l’andatura dinoccolata e uno strano ghigno sulle labbra uccide il presidente della Regione Piersanti Mattarella.
Dopo quel delitto, cui ne seguiranno decine che porteranno alla decapitazione di tutte le più alte cariche dello Stato in Sicilia, della magistratura, della polizia e dei carabinieri. Una guerra, una città in stato d’assedio in cui si contavano fino a cinque morti al giorno, una volta furono sette tutti in un colpo in una stalla non molto lontano dal centro.
In quegli anni si aveva timore di uscire la sera, i padroni di Palermo erano i gangster con il kalashnikov in macchina e la “38” sotto la giacca. Fu inevitabile prendere coscienza che la mafia stava dando scacco matto alla società civile. E si iniziò a parlare nei capannelli per strada, nelle famiglie, nelle scuole, come facevano Dalla Chiesa e Chinnici. Da lì in poi crescerà incessantemente la coscienza antimafiosa dei siciliani. Fino alle rivolte civili (oggi sbiadito ricordo) dei mesi successivi alle stragi del ‘92. Con un’eccezione: una diretta tv che seguì la prima puntata della Piovra in cui l'avvocato Seminara, presidente della Camera penale, disse che quello sceneggiato infangava la Sicilia, e finendo col negare l’esistenza della mafia. A Palermo se ne rise. E La Piovra continuò a essere vista da milioni di telespettatori.
Ora però dovete spiegarmi cosa c'entri tutto ciò con la Roma di oggi e con Mafia Capitale. Il 416 bis, il reato di associazione mafiosa, è applicabile alla Città eterna? Sì. Come anche a Milano, a Torino, a Venezia. Ci si accontenti (si fa per dire) di questo ottimo risultato giudiziario. Senza scomodare, per suggestivi paragoni, la città martire: Palermo e l'Isola che fu il campo di battaglia di un Paese irredimibile. Quella è tutta un’altra storia. Irrisolta.

* inviato del Tg2, autore con Piero Melati di “Vivi da morire”, Bompiani

Tratto da: Il Fatto Quotidiano del 30 giugno 2015

Foto: 1988. Omicidio targato Palermo © Letizia Battaglia

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