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alpi-ilaria0di Luigi Grimaldi - 21 giugno 2015
L’Italia avrebbe potuto rintracciare, su indicazione dell’Interpol, fin dal 2006, Gelle, il principale testimone d’accusa contro Hashi Omar Hassan (leggere il documento in coda all’articolo).  All’epoca era già nota la sua ritrattazione ma, nonostante di Gelle si sapesse tutto, ma proprio tutto, nessuno ha avviato una semplice azione per rintracciarlo. Anni di inerzia, fino a pochi mesi fa, quando Chiara Cazzaniga di “Chi l’ha Visto?” di Rai3 lo ha intervistato.  Inerzie, omissioni e depistaggi costellano come un rosario disgustoso questa vicenda. Oggi Hashi è “quasi libero”, ma per fine pena: 16 anni di carcere sulla base di una testimonianza pubblicamente dichiarata falsa.  Accusato di essere un membro del commando omicida, Hashi è stato assolto in primo grado, condannato all’ergastolo in appello e a 26 anni in cassazione.

Doveva essere, non il capro espiatorio, ma il colpevole perfetto: fatto arrivare in Italia con un tranello e subito arrestato, è stato dipinto come un bandito di strada, un membro delle bande di disperati dediti alla rapina e al saccheggio. Lo si è dipinto così perché serviva un colpevole che escludesse mandanti e moventi politico-militari per il duplice delitto.

Se Hashi è il colpevole,  ed è un bandito di strada, il delitto è il frutto di una rapina finita male e quindi non c’è nessun movente, nessun mistero da scoprire. Nessun traffico internazionale di armi dietro il delitto.

Per farlo è stato “fabbricato” un falso testimone, Gelle, che dal 2002 sta dicendo, senza che nessuna autorità si sforzi di interrogarlo (visto che al processo contro Hashi non si è mai presentato per testimoniare in tribunale), di essere stato pagato per accusare un innocente, perché si potesse chiudere il caso, in fretta.  Serviva una sentenza, o almeno un caso giudiziario, per chiudere la bocca a Luciana e Giorgio Alpi, che invece, nonostante tutto, hanno continuato  a chiedere verità e giustizia per la morte di Ilaria e di Miran Hrovatin, senza credere per un solo minuto alla colpevolezza di Hashi.

Gelle entra nel caso Alpi nel 1996, due anni dopo il delitto, quando viene segnalato all’ambasciatore Giuseppe Cassini, inviato in Somalia, da tale Ahmed Washington (rappresentante dell’ufficio della Cee a Mogadiscio), cittadino somalo di passaporto tedesco, così soprannominato per la vicinanza agli interessi americani in Somalia. E’ Washington a garantire sulla attendibilità di Gelle. Poco dopo Cassini scriverà, al ministero degli Esteri, anticipando che “forse nessun mandante e nessun movente sono dietro l’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Horvatin”. Lo dirà in un rapporto inviato il 13 dicembre del 1996 al MAE  prospettando, tra l’altro, la possibilità di stanziare una somma di denaro (circa 2.000 dollari) per potersi avvalere di ”un informatore affidabile da retribuire con un premio”. (Si badi bene, non un testimone oculare, ma un informatore). E’ Gelle quell’informatore? Sin dal 2002 Gelle sostiene di essere stato pagato dall’Ambasciatore Giuseppe Cassini per accusare Hashi. A Mogadiscio 2.000 dollari, e la possibilità di fuggire con la famiglia dall’inferno somalo, in quegli anni sono un vero patrimonio. Cassini ha sempre smentito tutte le accuse mosse nei suoi confronti e sostenuto che traffici di rifiuti in Somalia non sono mai esistiti. Per lui l’idea del traffico di armi come movente è del tutto inconsistente: “In fondo Hashi sarebbe venuto in Italia anche sapendo di essere colpevole del delitto perché, per un Morian, un banditello di strada, la vita nel carcere di Rebibbia è comunque migliore e meno pericolosa che nelle strade di Mogadiscio” (intervista a Giulio Golia, Le Iene , Italia1 marzo 2015). Neanche 16 anni di carcerazione fossero un favore di cui il somalo dovesse essere grato all’Italia.   Eppure, in quel marzo 1994, armi provenienti dalla Lettonia, Polonia e dagli Stati Uniti erano in viaggio verso la Somalia in violazione dell’embargo. Armi destinate ufficialmente alla polizia fantoccio somala gestita come un servizio privato da Alì Mahdi, dagli americani, addestrata dai nostri militari e coltivata, nei ruoli di comando, dai nostri servizi segreti e da quelli Usa: “erano i miei compagni d’accademia” disse di loro il Generale Rajola del Sismi. Difronte al comando della Polizia diretta da quei “compagni d’accademia”,  furono assassinati Ilaria e Miran da un commando in cui Hashi non c’era e in cui almeno uno degli assalitori indossava l’uniforme della polizia somala. Chissà se nell’ironia del linguaggio popolare dopo i “Compagni di Merende” di Pacciani entreranno anche i “Compagni d’Accademia” di Rajola. Perché si sa: i “banditelli” di Mogadiscio, che ambiscono alla elegante tranquillità delle celle di Rebibbia, sono soliti rapinare gli occidentali davanti ai comandi della Polizia presidiati da drappelli di teste di cuoio dei servizi di informazione di Unosom e, sopratutto, sono abituati a uccidere con un colpo alla testa le loro vittime senza rubare nulla.

Tratto da: articolo21.org

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