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ungaro donato-foto di Ermes Lasagnadi Antonio Roccuzzo - 13 giugno 2015
A volte succede che giustizia, alla fine, sia fatta. La Cassazione ha dato ragione, in via definitiva, a Donato Ungaro, giornalista, ex vigile urbano, autista – per necessità e bisogno – di bus municipali a Bologna. La sua storia di cronista minacciato e 14 anni fa licenziato in tronco dal comune di Brescello perché metteva sulla pagine delle cronache della “Gazzetta di Reggio” (Emilia) gli affari del sindaco Ermes Coffrini, delle imprese locali sul Po (la Bacchi) e delle infiltrazioni mafiosi in riva al Grande Fiume italiano (cosca Grande Aracri), l’ho già raccontata, proprio qui su questo blog. Ma l’epilogo giudiziario finale non era scontato.

Un cronista italiano, di “etnia emiliana”, minacciato, perseguitato, deriso perché fa semplicemente il suo dovere: vede, racconta e – come ricordava George Orwell – così onora il principio delle libertà di stampa (articolo 21 della Costituzione) perché sfida l’impopolarità dei veri cronisti scrivendo “cose che nessuno vuol sentirsi dire”. Primo fra tutti il sindaco della sua cittadina, ma anche i suoi sodali nelle imprese e tra le cosche locali, ma anche i colleghi giornalisti che si occupano di altro e voltano la testa dall’altra parte e i politici che per non ammettere cose “impopolari” o per calcolo di partito ignorano i fatti.

L’emiliano Donato Ungaro ha scartato l’antica legge mafiosa della rassegnazione: “calati giuco che passa la piena”. Forse perché sa, da buon padano e esperto di piene, che se ti cali una volta, lo farai sempre e la prossima piena invaderà tutto.

Ora il Comune dovrà riparare all’ingiusto licenziamento: Ungaro fu cacciato in barba all’articolo 18 che allora vigeva e per ragioni “ideologiche”. Rompeva le scatole agli intrecci illegali tra amministrazione pubblica locale, affaristi e esponenti della ‘drangheta cutrese trapiantati nel paese che ospitò i film su Peppone e Don Camillo. Donato Ungaro incarna una storia del “secolo scorso” (giornalisticamente parlando): rompeva le scatole perché raccontava i fatti che tutti sapevano e nessuno voleva sentirsi dire.

Ora, 14 anni dopo le cronache della Gazzetta e di Ungaro, dire che in quel “paesello in riva al Po” c’erano affari puzzolenti è facile, lo debbono ammettere tutti: il prefetto invia ispettori e studia lo scioglimento per infiltrazioni mafiose nel municipio, la Commissione parlamentare antimafia indaga, la Procura pure e il comune mantovano di Viadana (sull’altra sponda del Po) è stato già sciolto per mafia e il segretario comunale di quel Comune è collaboratore anche del Comune di Brescello. E così via. Ora è facile dire che la mafia è arrivata anche qui sul Po, visto che la procura distrettuale di Bologna arresta il cittadino brescellese Grande Aracri e riscostruisce l’inquinamento mafioso del voto a Brescello nel 2009.

Ma 14 anni fa, quando Ungaro filmava da solo e sotto la neve, le draghe dell’impresa Bacchi che a Boretto scavavano spudoratamente e illegalmente, rubavano, la sabbia nel Po da usare per costruire la Tav o interi quartieri di Reggio nell’Emilia, Donato era solo a farlo. Ed era solo quando pubblicava i piani segreti del sindaco per trasformare un terreno agricolo in industriale e far sorgere una super inquinante centrale a turbogas, smontata in Portogallo e da rimontare lì. Senza che quel progetto fosse preventivamente discusso in consiglio comunale.

Allora, era più difficile scrivere che “la mafia è sbarcata a Brescello”. E si rischiava, anche sul Po. Io ero il capocronista di Ungaro, allora. E forse la sua sfortuna è stata proprio incontrare un altro rompiscatole come me. Ma insieme abbiamo fatto il nostro mestiere. Raccontare, raccontare, raccontare. E, per questo, ora che la Cassazione ha dato ragione a quelle cronache oneste in riva al Po, mi sento di aver vinto un po’ anch’io. E avete vinto perfino voi che leggete.

Tratto da: ilfattoquotidiano.it

Foto originale © Ermes Lasagna

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