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migranti-UNHCRj björgvinssonEditoriale maggio 2015 n° 39
di Graziella Proto - 14 maggio 2015
Il rischio della morte in mare sembra essere il minore.
Era stato previsto un numero diverso, ma gli accadimenti e le difficoltà ci hanno fatto “dirottare”. Ce ne rammarichiamo perché avremmo voluto fare di più. Essere più presenti. Forse, anche più incisivi.
Tante le scadenze del periodo. Gli anniversari. Le celebrazioni. Per esempio, mentre scrivo, è in corso il corteo da Terrasini a Cinisi per ricordare il 37° anniversario dell’uccisione di Peppino Impastato. Per ricordare, ma anche per ribadire il suo pensiero: “Devi sempre dire no alla mafia, ricordatelo”. Non possiamo occuparci di tutto. Non ce la facciamo. Non è possibile. Ci accontenteremo di questo numero un po’ strampalato e poco ipotizzato.

***
Il mese scorso si è consumato un terribile naufragio di oltre 800 persone – sì, persone – perché a furia di chiamarli migranti o clandestini ci si dimentica che sono persone.
Nel canale di Sicilia a 100 chilometri dalla Libia e 200 da Lampedusa un barcone carico di 800 persone disperate, si è ribaltato. Secondo un sopravvissuto originariamente il numero degli imbarcati era più alto – circa 950, molti erano ammassati nella stiva. La notte fra il 18 e il 19 aprile, la tragedia. I migranti avevano già chiesto soccorso, sono morti mentre il mercantile King Jacobs che aveva ricevuto l’S.O.S. cercava di soccorrerli. I superstiti arrivano al Porto di Catania. Tv e testate giornalistiche di ogni parte del mondo. Un caos. Il sindaco che fa dichiarazioni di buon senso. I volontari che soccorrono. I rappresentanti istituzionali che raccolgono notizie.
Vado al Porto di Catania. La compassione mi travolge ma… non si può scoppiare a piangere nel momento in cui si dovrebbe invece osservare, registrare, documentare.
In un angolo del bar, mesto e spoglio del porto di Catania alcuni giornalisti fra i quali Ruotolo, seduti a un tavolinetto con i loro bei computer portatili scrivevano, annotavano, oppure comunicavano via telefono. Io con quel fastidiosissimo groppo alla gola avevo difficoltà anche a respirare. Ciò che vedevo non mi piaceva. Avrei voluto non vederlo quel dramma umano. Una tragedia che si ripete, che ci commuove, in quel momento. Per molti, “ … un palcoscenico dove mettere in scena un copione che si ripete: emergenze, piagnistei e tragedie, che hanno come fine ultimo il profitto sulla pelle dei migranti …”, la militarizzazione del territorio e del Mediterraneo. Poi come per incanto ci si dimentica.
Una lunga fila di ragazzi. Volti spaesati. Impauriti. Perplessi. Si guardano intorno, scambiano qualche parola con chi gli spiega qualcosa, gli fa provare un paio di scarpe, gli mette addosso un giubbotto.
Loro non hanno nulla. La famosa valigia di cartone per questi migranti che si affidano al mare e alle sue bizzarrie, sarebbe troppo.
Una faccia esitante, gli occhi spalancati, ma uno sguardo indecifrabile, “ciao” dico, sorridendo e cercando di far capire che sono un’amica (amica, che parolona…) a quel ragazzo giovanissimo che non sapeva cosa fare, come mettersi, come stare dentro quella fila. Imbarazzato. “Ciao” dico, e aggiungo il gesto del saluto con la mano per farmi capire, mentre quel dannato groppo sale e scende dentro la mia gola. Al gesto della mano il ragazzo si scioglie, sorride, la sua faccia nera s’illumina perché i suoi denti bianchissimi gli creano una luce attorno. Col sorriso e con la mano ricambia il mio saluto. Un minimo accenno di relazione, che non può andare oltre perché un poliziotto accortosi che avevo oltrepassato la transenna, mi si avvicina e mi dice “signora non può stare qui”.  Non mi ero accorta che avevo oltrepassato lo sbarramento. Ero stata attratta come una calamita da quella fila di giovani, smarriti e intimoriti, tantissimi minori, accompagnati e no.
Mi avevano totalmente coinvolta. Sono libici, eritrei, somali, hanno un progetto migratorio preciso, il nord Europa. Alcuni, solo alcuni sperano di rimanere, studiare, lavorare. Lì, nei loro paesi, nelle loro case, baracche o capanne, hanno deciso che devono affrontare il viaggio. Non importa con quale mezzo si parte. Si deve partire a qualunque costo. Il rischio della morte in mare sembra essere il minore.
Tante le posizioni: quelle umanitarie dovute ai cosiddetti buonisti; quelle giudiziarie che vedono inchieste aprirsi e spesso chiudersi; quelle estremiste del tipo tutti a casa, li rispediamo oppure non soccorriamo, spariamo, affondiamo… C’è anche chi vorrebbe trasformare Lampedusa, da isola di pace e accoglienza in una nuova Ellis Island, l’isolotto in cui i migranti erano detenuti dalle autorità degli Stati Uniti d’America sino al 1954. Che follia!
Per quanto mi riguarda e utilizzando le parole del Papa, dico che le politiche sui migranti vanno ripensate. Non ho la ricetta in tasca, ma trovo questa tragedia assurda e penso che si potrebbe se non evitare sicuramente limitare.
La retorica la lascio agli altri.

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Il nuovo numero di Casablanca (PDF) sarà disponibile su lesiciliane.org/casablanca.html

Foto © UNHCR/J.Björgvinsson

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