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di Arianna Ciccone - 11 maggio 2015

Nell’era della sorveglianza di massa noi giornalisti, noi cittadini dovremmo prendere posizione, dovremmo impegnarci, in nome della libertà di parola, al fianco di chi combatte, anche sacrificando la propria libertà. ‘Sii coraggioso, perché il coraggio è contagioso’.

Sono stata invitata alla XI edizione della manifestazione Vicino/Lontano a Udine per parlare di libertà di espressione. Ho suddiviso in tre parti il mio intervento: nella prima ho cercato di “dare un volto alla battaglia per essere liberi” attraverso le storie di alcuni giornalisti, scrittori, blogger, disegnatori. Nella seconda riporto gli ultimi dati sulla libertà di stampa nel mondo, con un particolare focus sulla situazione in Italia. Nell’ultima parte spiego perché secondo me i giornalisti dovrebbero essere attivisti.

La battaglia per essere liberi ha il volto di Ali Abdulemam, Khalid Albaih, Anabel Hernandez, Farida Nekzad, Erri De Luca, Maria Makeeva, Yavuz Baydar, Sue Turton, Gerard Biard, Edward Snowden. E ho scelto loro come esempio di battaglia per la libertà di espressione perché li ho “conosciuti” all’ultima edizione del Festival Internazionale del Giornalismo, che con Chris Potter organizzo ogni anno a Perugia.

Ali Abdulemam è un blogger, ha fondato Bahrein online. Arrestato più volte con l’accusa di diffondere notizie false e aver insultato il re, ha subito abusi e torture; è scappato dal suo paese nel 2011 dopo le proteste contro il regime. Alcuni suoi amici sono stati uccisi. Lui ha trovato asilo politico in Inghilterra. Due mesi fa gli è stata tolta la cittadinanza.

Credo che il regime stia usando il suo potere economico e stia letteralmente pagando perché non venga fuori l’immagine degli abusi nel Paese. I media dicono: non c’è audience sui fatti che riguardano il Bahrein, ma noi abbiamo scoperto che volutamente si sta facendo in modo di non far raccontare quello che accade. Noi attivisti cerchiamo di diffondere il messaggio che in Bahrein ci sono tante persone in pericolo e le violazioni dei diritti umani continuano, a cominciare dalla libertà di espressione.

Khalid Albaih è un vignettista sudanese in esilio a Doha, in Qatar. È conosciuto anche come “artista della rivoluzione”. I suoi disegni nel 2011 hanno “preso parte” alle proteste della Primavera araba. Dopo averle viste in rete, le vignette di Albaih sono state trasformate in stencil e riprodotte sui muri di Beirut, del Cairo, nello Yemen, e in tutto il Medio Oriente; le immagini poi sono state condivise in modo virale, diffondendo l’opera di Albaih sul web, divenuto così simbolo di spazio libero di protesta.

La mia vita è in pericolo per quello che faccio, ma ci sono migliaia di persone come me di cui non sentirete mai parlare. E tante altre che muoiono nelle piazze. Io, invece, mi limito a disegnare. È il minimo che possa fare.

In un bellissimo articolo per Al Jazeera, in cui prendeva posizione al fianco dei vignettisti di Charlie Hebdo, pur non condividendone la linea editoriale, Albaih scriveva:

As an Arab and Muslim political cartoonist living and working in the Middle East, the fear of upsetting the “wrong people” is part of daily life. My politically charged images rose to prominence during the early stages of the Arab Spring protests in 2011. Like so many young people in the Middle East, I found an outlet on social media. I was quickly labelled “an artist of the revolution”. Today, my work is shared around the world. In my native Sudan, as well as in Yemen and Tunisia, my cartoons are used by revolutionary groups and by political activists. This is my passion. I don’t make a living off these political cartoons. In fact, I encourage people to copy and share them. It is an honour, but it does not come without dangers.

Anabel Hernandez pluripremiata giornalista investigativa messicana, vive sotto scorta, 24 ore su 24. Da anni denuncia corruzione, malavita, traffici, ingiustizie del suo paese. Nel suo ultimo libro tradotto in italiano La terra dei Narcos, ci sono i nomi di politici e personaggi pubblici collusi con i cartelli del narcotraffico. I “cattivi”, come li definisce Hernandez, hanno nomi e cognomi, e sta al giornalista indicarli. Molte delle sue fonti sono state assassinate, i suoi familiari aggrediti. Nel 2013 undici uomini armati hanno fatto irruzione nel suo appartamento in cerca di alcuni documenti. Erano poliziotti federali. A quel punto ha capito che l’esilio era l’unica via di salvezza. Negli ultimi sei anni, in Messico più di 100 giornalisti sono stati torturati e uccisi.

La sparizione di 43 studenti della scuola rurale di Ayotzinapa, avvenuta il 26 settembre del 2014 a Iguala, nello stato messicano di Guerrero, ha mostrato con violenza al mondo il vero volto della situazione che vive oggi il Messico: il susseguirsi di massacri di innocenti, le sparizioni coatte, l’impunità, la collusione a tutti i livelli dello stato con la malavita organizzata, e il fallimento totale del presidente Enrique Peña Nieto nel garantire pace, legalità e giustizia, elementi indispensabili per l’esistenza di una democrazia.

Se il governo messicano pensa di potermi fermare si sbaglia di grosso: questa è la mia libertà di espressione.

Farida Nekzad è una giornalista afghana. Ha fondato e dirige Wakht News Agency. Per il suo coraggio e la sua battaglia per i diritti delle donne ha subito pressioni e minacce di morte. Ha vinto diversi premi tra cui quello del Committee to Protect Journalists.

Above all we strive to tell the world what is happening to women in Afghanistan even if some of us have to sacrifice our lives… I want to prove that we – women journalists – can work shoulder to shoulder with our brothers while at the same time remaining steadfast in our profession.

Sue Torton è una reporter televisiva, lavora per Al Jazeera English. Negli ultimi anni ha coperto Libano, Russia, Turchia ed Egitto. Qui, in Egitto, è stata processata insieme ad alcuni colleghi con l’accusa di terrorismo. Tre membri dello staff – Peter Greste, Mohamed Fahmy and Baher Mohamed – sono stati condannati e imprigionati con pene dai sette ai dieci anni. Gli altri, processati in absentia, hanno ricevuto condanne a dieci anni. Fin dall’arresto dei suoi colleghi, alla fine del dicembre scorso, Sue Torton ha svolto un ruolo di primo piano nella campagna Journalism is not a crime #FreeAJStaff per il rilascio dei colleghi e l’annullamento della sentenza. L’hashtag #FreeAJStaff ha ottenuto 3 miliardi di impression in 13 mesi (da febbraio a settembre 2014 ha raggiunto circa 114 milioni di utenti unici su Twitter). Fahmy e Mohamed sono ancora in carcere e dovranno affrontare un nuovo processo. Peter Greste è stato liberato ed espulso lo scorso febbraio, dopo un anno di prigione, e ha voluto immediatamente ricordare che ci sono centinaia di casi di giornalisti principalmente locali imprigionati, minacciati, torturati di cui i media non parlano.

We need to stand behind the role of journalists in upholding democracy. When so many cases go unreported the public often fails to understand the essential role played by journalists, and then governments often get away with attacks on the press.

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Yavuz Baydar è un giornalista turco molto noto, esperto di politica e media. Nel dicembre 2013 ha co-fondato P24 – Platform for Independent Journalism, per monitorare i media turchi. Al Festival del Giornalismo ha presentato la sua ricerca, pubblicata dal Shorenstein Center a marzo 2015, sulla situazione dei media in Turchia The newsroom as an open air prison: corruption and self-censorship in Turkish journalism.

La Turchia è ormai un paese dove la libertà di espressione è sempre più sotto attacco e dove i media indipendenti rischiano una vera e propria estinzione. Dove uno studente finisce in galera per un tweet satirico.

Le pressioni di governo, politica e forze dell’ordine, infatti, non sono l’unica forma di intimidazione all’espressione libera del paese. La minaccia di licenziamento e delle dimissioni forzate agisce come una potente arma di dissuasione e autocensura, spesso accompagnata da un contesto svantaggioso per i media indipendenti e liberi, costretti a lavorare in un regime economico drogato che premia i potenti organi di stampa che beneficiano della compiacenza e dei favori delle alte gerarchie statali.

La battaglia per essere liberi ha il volto di Maria Makeeva, vice-direttrice del canale russo TV RAIN, che per la sua indipendenza anche rispetto alla copertura della crisi ucraina, deve affrontare continuamente i tentativi di censura da parte di Putin. Ha il volto di giovani giornalisti ungheresi che hanno dato vita grazie al crowdfunding a Direkt36, un centro di giornalismo investigativo indipendente.

Ha il volto di Erri De Luca, sotto processo a Torino per aver espresso la sua opinione sul TAV: “va sabotata”. Sotto processo per aver espresso la parola contraria.

Dal 24 febbraio 2014, da quando è iniziato il procedimento penale a mio carico impedisco ai miei avvocati la libertà di fare il loro mestiere, i quali avrebbero voluto articolare la strategia difensiva sollevando la questione di illegittimità costituzionale, in violazione dell’art. 21 della Costituzione. Articolo che sancisce la libertà di espressione e libera manifestazione del pensiero. Se l’eccezione venisse accolta, continuerebbe, poi, davanti alla Corte costituzionale. Ma mi sono opposto, perché voglio andare a sentenza. E, se dovessi esser condannato non desidero nemmeno beneficiare delle attenuanti generiche. Il 20 maggio è la prossima scadenza, giorno della mia udienza, lo stesso in cui cade il mio sessantacinquesimo compleanno. Sono felice di questa coincidenza perché andrò a difendermi da scrittore. In aula non andrò a discolparmi, ma a mettermi di traverso alla censura che vuole la parola contraria su un binario morto.

È la battaglia di Charlie Hebdo. Nel 2006 il settimanale satirico Charlie Hebdo decise di ripubblicare le vignette del giornale danese Jilland-Posten che avevano provocato un’ondata di violenza a causa della raffigurazione, ritenuta blasfema, del profeta Maometto. La copertina di quel numero fu disegnata da Jean Cabut, in arte Cabu. Il 7 gennaio scorso la redazione di Charlie Hebdo è stata attaccata. Cabu e altri 11, tra i quali i vignettisti Charb, Tignous e Wolinski, perderanno la vita. Charlie Hebdo era testata nota per un’orgogliosa anarchia creativa, pronta a sfidare simboli e demolire credenze. La rivista ha da poco ricevuto il PEN American Center’s Freedom of Expression Courage Award. Scelta contestata da alcuni scrittori: la loro satira, dicono, è una offesa alle minoranze, il coraggio e la libertà di espressione non c’entrano niente. Sulla vicenda segnalo il bellissimo (e approfondito) articolo di Anna Momigliano su Rivista Studio.

La migliore risposta a queste critiche legittime sono, a mio avviso, le parole di Gerard Biard in questo video messaggio al Festival del Giornalismo:

Siamo stati spesso accusati di essere provocatori, perché abbiamo usato il diritto della libertà di espressione, della libertà di satira, della libertà di caricatura e della libertà di blasfemia. La blasfemia per noi è importante, non perché sia un piacere bestemmiare o insultare il potere divino. È importante perché è una forma di contestazione dell’autorità. E questo in democrazia è fondamentale. Se una democrazia proibisce la blasfemia, se la punisce con la legge, non è più una democrazia, perché punisce la contestazione dell’autorità. Per noi è questa una delle ragioni per cui abbiamo deciso di continuare. Perché quello che è stato colpito non è soltanto la libertà di espressione, la laicità, la libertà di ridere e di dissentire, è il cuore dell’idea politica della democrazia, della contestazione, della possibilità di contestare e della possibilità del dibattito. Abbiamo visto con l’attentato a Copenhagen che questa gente il dibattito non lo vuole, lo rifiuta. E questo non è possibile. Se rifiutiamo il dibattito siamo morti. E noi siamo sempre vivi.

La battaglia per essere liberi, è la battaglia di Edward Snowden, il whistleblower che ha svelato al mondo il sistema di sorveglianza di massa portato avanti dalla NSA, l’agenzia per la sicurezza nazionale americana e che oggi vive in Russia dove ha ottenuto asilo politico.

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Contro la sorveglianza dei governi – avverte Snowden – serve la resistenza civile. In nome della sicurezza si stanno approvando leggi che restringono sempre più la privacy e i diritti dei cittadini. È di pochi giorni fa la sentenza della Corte d’appello federale di New York, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità della sorveglianza di massa della NSA: la raccolta indiscriminata di dati costituisce una restrizione senza precedenti della privacy dei cittadini ed è illegale.

Solo noi possiamo fermare tutto questo, le persone comuni, dobbiamo cambiare la natura di questo potere e la resistenza civile può fare la differenza. Dobbiamo far capire che vogliamo continuare a vivere con la medesima libertà e che non abbiamo paura di finire su una lista, serve un’affermazione politica.

Sempre meno liberi
Il 3 maggio scorso è stata celebrata come ogni anno a partire dal 1993 la Giornata Mondiale per la libertà di stampa. Il rapporto di Freedom House parla chiaro: la libertà di stampa è sotto attacco in tutto il mondo, le condizioni dei media a livello globale sono profondamente peggiorate nel 2014, raggiungendo il punto più basso degli ultimi 10 anni.

I governi hanno sfruttato le leggi per la sicurezza e per la lotta al terrorismo come pretesto per mettere a tacere tutte le voci critiche, mentre i gruppi di pressione e le gang criminali impiegano tattiche sempre più meschine per intimidazioni ai danni di giornalisti e i proprietari dei media tentano di manipolare il contenuto delle informazioni per i loro fini politici o economici. Sui 199 paesi passati in rassegna, 63 sono ritenuti “liberi” sul piano dell’informazione mentre 71 vengono descritti come “parzialmente liberi” e 65 “non liberi”.

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Tra il 2012 e il 2014 secondo il Committee to Protect Journalists sono 205 i giornalisti uccisi, una tendenza in crescita del 24% rispetto agli anni precedenti. 22 i giornalisti uccisi nel 2015.

“Ma l’indipendenza di informazione – scrive giustamente Giulia Annovi – non si misura solo nella possibilità di svolgere un mestiere in piena libertà. Significa anche la possibilità di accedere alle notizie in modo completo, senza che subiscano l’influenza di governi, potenze economiche o leggi formulate per contrastare questo diritto. Benché il 40% della popolazione mondiale abbia accesso a Internet, solo il 14% degli abitanti del pianeta ha la possibilità di fruire di una libera informazione. Infatti solo una persona su sette vive in un territorio dove è presente un buon accesso all’informazione, vale a dire che la maggioranza delle persone nel mondo (86%) non gode di tale diritto”.

Non c’è libertà di stampa, inoltre, senza Internet libero. Così il direttore del Committee to Protect Journalists, Joe Simpson, parlando del programma a sostegno di una Rete libera:

“Why do you need a program to defend the Internet?” one supporter asked. “You don’t have a special program to defend television, or radio, or newspapers.” But the Internet is different. Increasingly, when it comes to global news and information the Internet is not a platform. It is the platform.

As print and broadcast converge online, as social media plays an increasingly critical role in transmitting news to a mass audience, the Internet has become the primary means through which news is disseminated globally. It has also become an information chokepoint.

Repressive governments are recognizing that the Internet is no longer the province of the connected elite. It’s a form of mass communication which, when unfettered, presents a threat to centralized power and control.

Anche la classifica di Reporter Senza Frontiere sulla libertà di stampa nel mondo fotografa un sostanziale peggioramento a livello globale.

L’indicatore globale annuale, che misura il livello delle violazioni della libertà di informazione, è arrivato a 3719 punti, quasi l’8% in più rispetto al 2014 e il 10% in più se paragonato al 2013.

“Il deterioramento complessivo della libertà di stampa – afferma Christophe Deloire, segretario generale di Rsf – è causato da fattori congiunti, tra cui l’azione di gruppi islamisti radicali come lo Stato Islamico o Boko Haram, che si comportano come despoti dell’informazione”.

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È la contraddizione dei nostri tempi come ha sottolineato Emily Bell: nell’era digitale siamo più liberi ma mai come ora l’informazione è sotto pressione, minacciata, aggredita, in pericolo.

The power of information and news is magnified greatly by the ubiquity of digital media. Smashing a press is relatively easy compared to deleting an image from a social media website. As it has become harder to censor outlets, and as the attention focused on stories and individual journalists has grown, then so has the sport of intimidation, violence and imprisonment.

Oggi più che mai nelle zone di conflitto i giornalisti sono bersagli di rapimenti e uccisioni.

Anche negli USA si parla di declino: RSF cita il caso di James Risen, premio Pulitzer del New York Times, che ha subito gravissime pressioni affinché rivelasse una sua fonte, cosa che l’autore del libro State of War, si è sempre rifiutato di fare.

La scelta che il governo mi ha dato è rinunciare a tutto quello in cui credo o andare in prigione. Non parlerò.

Alla fine della sua battaglia, Risen pubblicamente accusò Obama di essere il peggior nemico della libertà di stampa negli ultimi 20 anni.
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Ma il peggioramento più grave riguarda, secondo il rapporto, l’Unione europea e i Balcani.

Basta pensare, tra l’altro, alle ultime leggi approvate in Spagna e Francia.

La Spagna ha recentemente approvato la legge di sicurezza cittadina, meglio nota con il nome di Ley Mordaza (Legge Bavaglio): dal 1 luglio manifestare davanti al Congresso dei deputati sarà considerato un’infrazione “grave”, a cui corrisponde una multa fino a 30.000 euro, e sarà vietato l’uso non autorizzato di immagini delle autorità di contrasto o di poliziotti in tenuta antisommossa. La formulazione vaga di questo aspetto della legge potrebbe portare le forze dell’ordine ad avere carta bianca nell’impedire ai giornalisti di svolgere il loro lavoro.

E proprio per protestare contro questa legge, che cerca di limitare e contenere il dissenso, migliaia di ologrammi hanno sfilato davanti al Congresso dei Deputati, persone di tutto il mondo (Spagna, Russia, Messico, Argentina, Cile, Italia, Germania, Francia…) hanno scannerizzato il proprio corpo sul sito www.hologramasporlalibertad.org, o registrato le proprie grida di protesta, mentre altri hanno semplicemente scritto i messaggi che sono finiti sui cartelli. In 18mila hanno così partecipato virtualmente alla protesta.

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In questi giorni la Francia ha approvato una nuova legge sulla sorveglianza, in risposta agli attentati di Parigi dello scorso gennaio. Una legge che, in nome dell’antiterrorismo, rende più facili controlli e intercettazioni. Di fatto viene permessa una sorveglianza di massa che metterà a forte rischio la privacy e la libertà dei cittadini, consentendo alle agenzie di intelligence di controllare mail e telefoni senza passare per l’autorizzazione della magistratura. Fabio Chiusi, riprendendo Marc Rees su Next Impact, spiega in modo dettagliato perché questa legge è un vero e proprio incubo.

In Europa si discute da tempo del TTIP (Trattato commerciale USA-Europa per un mercato unico con quasi un miliardo di “consumatori”). Inizialmente segreto, il Trattato è stato poi in parte desecretato: nelle trattative sono state coinvolte le grandi multinazionali, ma non le associazioni dei diritti civili. Gli accordi si occupano anche di sorveglianza digitale, privacy e copyright e così come sono portati avanti potrebbero restringere fortemente libertà e diritti dei cittadini in nome del profitto. Contro il trattato sono state raccolte oltre un milione di firme grazie alla mobilitazione di 32 associazioni in 24 paesi (le firme non hanno nessun valore legale ma sicuramente la Ue dovrà tenerne conto). Il Trattato, scrive Glyn Moody su Ars Technica in un articolo che approfondisce tutti gli aspetti più controversi degli accordi, è una minaccia per la democrazia: “A boost for national economies, or a Trojan Horse for corporations?”

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L’Italia fra minacce dei boss, querele dei politici, e il vuoto di cultura digitale
Tra querele temerarie, minacce della criminalità organizzata e una classe politica impreparata (e in malafede) che ci sottopone a uno stillicidio continuo di proposte di leggi sempre più imbarazzanti, il nostro paese precipita sempre più nella classifica della libertà di espressione.

Secondo la classifica 2015 di RSF l’Italia ha perso 24 posizioni rispetto all’anno precedente. Siamo ora al 73° posto tra Moldavia e Nicaragua. L’organizzazione Ossigeno per l’informazione ha denunciato nel 2014 506 minacce nei confronti dei giornalisti da parte della criminalità organizzata. L’ultima in ordine cronologico ha costretto alla scorta Sandro Ruotolo, minacciato di morte dal boss Zagaria.

Ma a minacciare la libertà di espressione ci sono anche le querele temerarie da parte soprattutto di politici che tentano così di costringere all’autocensura i giornalisti. Il nostro è il paese del querelificio (e delle richieste di risarcimento danni) a scopo intimidatorio. A essere esposti soprattutto freelance, blogger, citizen journalist senza copertura economica e legale. Come ricordano Guido Scorza e Alessandro Gilioli in Meglio che taci. Censure, ipocrisie e bugie sulla libertà di parola in Italia: “Nel 2013 il relatore speciale della Nazioni Unite Frank La Rue ha emesso un rapporto duro, indicando come gli standard internazionali in merito alla libertà di espressione nel nostro paese non sono rispettati anche per la continua perseguibilità della diffamazione: un allarme totalmente ignorato dalla classe dirigente italiana che al suo interno è in disaccordo su tutto, tranne sulla comune tendenza a querelare o minacciare querele verso chi la critica”.

Parimenti importante è esaminare la questione della lite temeraria. Se utilizzata in modo improprio, la lite temeraria può diventare una forma di ‘molestia giudiziaria’ nei confronti della stampa o di chiunque eserciti la propria libertà d’espressione. Anche se il ricorso viene respinto, l’impatto economico delle spese per la difesa può avere un effetto paralizzante sul giornalista o sul mezzo di comunicazione in specie su chi si occupa di giornalismo investigativo.

Siamo il paese dove un soggetto amministrativo come l’Agcom – Agenzia per le garanzie nelle comunicazioni – può decidere di rimuovere contenuti dal web oppure oscurare interi siti senza nemmeno passare per la magistratura.

In tutto il mondo sono ormai più di 90 i paesi che hanno adottato un Freedom Information Act: norme che dovrebbero garantire il diritto dei cittadini di accedere a ogni informazione in possesso della pubblica amministrazione, obbligando quest’ultima appunto a garantire questo accesso. Sempre Frank La Rue ha dichiarato:

Trovo molto strano che l’Italia non abbia mai adottato un FOIA. La maggior parte dei paesi europei si è dotata di norme che garantiscono l’accesso alle informazioni da parte dei cittadini e l’Ue ha emesso una direttiva in merito. È davvero strano che l’Italia non vi abbia aderito.

Su questo si stanno battendo 32 associazioni che si sono unite per un FOIA italiano. Il Ministro Madia si è impegnato a inserire la norma nella riforma della pubblica amministrazione: ce la faremo entro il 2015?

Siamo il paese dove una classe politica impreparata cerca continuamente di mettere le mani sul digitale, rischiando di volta in volta di fare danni incredibili alla libertà di tutti noi. Sono anni che si continuano a combattere luoghi comuni e idee sbagliate alla base di molte iniziative legislative: sarebbe ora di andare avanti anche nel dibattito pubblico, schiacciato dalla disinformazione e demonizzazione sistematica dei media mainstream su mondo e vita digitale e da un parlamento impreparato e spesso in malafede. Abbiamo provato costantemente su Valigia Blu a respingere e smontare queste dinamiche: su diffamazione, rettifica e intercettazioni, su cyberbullismo, anonimato, sicurezza e copyright, sui danni che un vuoto di cultura digitale può fare soprattutto fra i professionisti dell’informazione.

Gilioli e Scorza lo dicono chiaramente nel loro libro. Citando Ray Bradbury “Esistono molti modi diversi per bruciare un libro: e il mondo è pieno di gente che corre su e giù con i fiammiferi.”

Oggi i censori più o meno consapevoli, ma comunque con i cerini ben accesi nelle mani, corrono sempre di più sulle strade digitali: quelle che tutti amiamo per la maggior libertà che ci hanno portato. E l’errore più grave sarebbe fingere di non vedere o illudersi che queste strade siano a prova d’incendio.

E l’errore più grave, aggiungo, sarebbe non mobilitarsi, impegnarsi, prendere posizione contro tutto questo. E vengo così alla conclusione di questo mio intervento.

Perché i giornalisti – e non solo – devono essere attivisti

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Dopo il massacro di Charlie Hebdo, i potenti della Terra sfilarono a Parigi in nome della libertà di espressione. Qualcuno la definì la marcia degli ipocriti: molti dei capi di Stato e autorità, immortalati in quella foto, tutto sono tranne che strenui difensori della libertà di espressione e dei diritti civili. A svelare l’ipocrisia e le contraddizioni del “potere” la tweetstorm di Daniel Wickham, un giovane studente della London School of Economics. Lo storify che ha raccolto i suoi tweet ha ottenuto oltre 2 milioni e 600 mila visualizzazioni.

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Ci sono temi, istanze rispetto alle quali chi fa informazione non può non prendere posizione. Dice Dan Gillmor, autore di We the Media e anche lui al Festival Internazionale del Giornalismo 2015:

All journalists need to think of themselves as activists in the world we now live in. Journalism is vital to liberty because it is a cornerstone of free speech. In many parts of this world, doing real journalism is activism – because truth telling in some societies is an act designed to bring about change.

Giornalisti che non si schierano su temi fondamentali come libertà di espressione, libertà di associarsi, di collaborare, di innovare – continua Gillmor – non possono definirsi giornalisti.

Governi e società sempre più potenti stanno mettendo a rischio questi valori fondamentali in nome della nostra sicurezza o della nostra convenienza.

This is a betrayal of the Internet’s decentralized promise, where speech and innovation and collaboration would often start at the edges of this network of networks, where no one needed permission to do those things.

La sorveglianza è un metodo usato dai governi, spesso con la collaborazione di grandi società, per tenere sotto controllo giornalisti e attivisti. Se non ci opponiamo con forza alla sorveglianza di massa non possiamo davvero dirci giornalisti. E ancora – affonda Gillmor – non possiamo dirci giornalisti se non lottiamo per una rete libera e uguale per tutti.

A Berlino, il primo maggio ad Alexanderplatz, lo scultore udinese Davide Dromino, ha svelato per la prima volta la sua opera Anything to say, un “monumento al coraggio”: tre statue in bronzo, a grandezza umana, raffiguranti Julian Assange, Edward Snowden e Chelsea Manning in piedi su una sedia; accanto a loro, una quarta sedia, vuota. “Un esempio di arte pubblica, utile a smuovere le coscienze sul tema, attualissimo, della libertà di espressione e della ricerca di verità finora indebitamente nascoste ai cittadini”.

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Sui temi della libertà di parola, nel senso più ampio del termine, noi giornalisti, noi cittadini dovremmo alzarci su quella sedia vuota e stare in piedi al fianco di Snowden, Assange e Manning e di chi lotta ogni giorno per essere libero.

Sii coraggioso, perché il coraggio è contagioso.

Tratto da: valigiablu.it

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