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limiti-stefania-2di Stefania Limiti - 2 aprile 2015
La citazione stavolta è d’obbligo: come avrebbe detto il grande Besozzi, l’unica cosa certa è che dell’operazione “Farfalla” non si sa quasi nulla.
Il problema è che lo dice il Copasir. Dopo aver svolto una indagine (anche sull’operazione “Rientro” e sul caso “Flamia”, la prima fallita l’altra pienamente riuscita, giudicate in linea con la legge), il Comitato parlamentare sulla sicurezza della Repubblica ha presentato una Relazione nella quale prende atto di cose gravissime e, allo stesso tempo, della impossibilità di saperne di più.
Vediamo le cose gravi: quando il Sisde di Mario Mori ha raccolto, nel periodo 2003-2004, informazioni tra otto detenuti (Buccafusca, Cannella, Rinella, Genovese, Angelino, Pelle, Di Giacomo e Massaro) di cui sei al 41/bis, ha agito sconfinando dalla legge sui servizi, interpretata “in modo strumentale e arbitrario"; e anche il Dap (il Dipartimento di amministrazione penitenziaria) di Giovanni Tinebra, e in particolare il suo Ufficio ispettivo guidato da Salvatore Leopardi, con il quale era concertata l’azione di acquisizione di notizie, ha svolto un ruolo "non consono alle sue prerogative e fuori dal perimetro assegnato", operando come “una vera e propria struttura parallela di intelligence"; l’operazione non ha prodotto nessuna "specifica informativa destinata all'Autorità politica pro tempore"; ascoltati dal Comitato, i due ministri dell'epoca Giuseppe Pisanu (Interno) e Roberto Castelli (Giustizia), hanno detto di non saperne nulla – Castelli ha pure aggiunto che "all'interno del Dap era stata costituita, a mia totale insaputa, una centrale di ascolto che intercettava i mafiosi". Tinebra, lamenta il Copasir, si è limitato a dire “non so e non sapevo", aggiungendo di avere delegato tutto a Leopardi. Quest'ultimo lo smentisce riferendo di aver più volte informato il direttore del Dap sul prosieguo dell'operazione.

Il quadro in cui avvenne il tentativo di agganciare i detenuti a fini informativi è, dunque, assai preoccupante. E non basta. L’operazione “Farfalla” finì male: nessuno dei detenuti oggetto delle attenzioni è diventato fonte fiduciaria del Sisde. L’obiettivo prezioso di ottenere, in cambio di soldi o altre utilità, notizie fuori dal circuito di controllo giudiziario, come accade nei confronti di un collaboratore di giustizia, non è stato centrato. Ma il vero nodo è che dell’intera vicenda non è possibile saperne di più.
I dieci membri del Copasir hanno svolto la loro indagine sulla base delle testimonianze raccolte nelle audizioni e di soli tredici documenti reticenti. Lo scambio informativo tra Sisde e Dap è avvenuto tramite comunicazioni date a voce, non codificate e non protocollate: "costruito solo sulla base di conoscenze personali tra i rispettivi dirigenti e direttori degli enti e non sulla base di regole precise, concordate e codificate". I termini dell'operazione, trattati a voce tra i dirigenti di Sisde e Dap, furono sintetizzati in un unico appunto datato 24 maggio 2004, in cui si fissarono i criteri, i nominativi e le procedure del rapporto. In un precedente appunto informale datato 21 luglio 2003, si evidenziano le esigenze del servizio, tra le quali compare la realizzazione dei contatti con i detenuti "al fine di sviluppare autonome e mirate azioni di intelligence, non intaccate da ulteriori interessi da parte di altri organismi". Per il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato in questo modo la polizia penitenziaria, invece di informare la magistratura, avrebbe informato il Sisde. Mori ha negato questa interpretazione.
Scrive il Copasir: “Sulla base di quanto è emerso, non risulterebbero altre operazioni di natura analoga” e quel condizionale, fa notare con sottile intelligenza Rosa Calipari, non è “come quello usato dai servizi”, cioè non afferma, ma ammette una sconsolante verità: significa non sappiamo proprio se c’è dell’altro. La stessa deputata del Pd fa notare con eleganza che l’operazione “Farfalla” è fallita “rispetto agli obiettivi che conosciamo” (perché potremmo non conoscere altri).
Secondo il vicedirettore del Comitato, Giuseppe Esposito, l'operazione "è stata fatta con grande superficialità', da amici al bar, i direttori di Sisde e Dap, Mario Mori e Giovanni Tinebra, che si conoscevano per precedenti esperienze professionali”. E’ una interpretazione minimalista della faccenda, che stona con il nostro passato: in Italia le operazioni sporche sono state fatte da strutture informali e da uomini senza divisa, fuori e lontano dalla legalità, in una zona franca nella quale sono state allevate figure-mostro, agenti da attivare e disattivare alla bisogna, impossibile da identificare. E’ in questa area sospesa e al di sopra della legge che ci sono incrociate aspirazioni criminali e progetti destabilizzanti (il doppio livello). Per questi motivi l’operazione Farfalla è un amaro simbolo della nostra storia. Nella sua relazione il Copasir vuole dare speranza: sostiene che tutto questo è avvenuto prima della riforma dei servizi (Legge 124/2007). Ora con la nuova legge c’è più controllo e l’azione delle agenzie di intelligence è circoscritta da regole più stringenti. Peccato che il controllo resta saldamente nelle mani dei controllati. Lo stesso Copasir non può andare a cercare documenti negli archivi dei servizi dove non ha possibilità di accesso: il suo presidente può chiedere una carta e quelli, se vogliono gliela danno. Dicono: "Ci fidiamo delle carte che ci danno, ma siamo certi che sono tutte quelle che hanno?".  La risposta è ovvia. Non fidatevi.

In foto: la giornalista Stefania Limiti

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