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moran-yolandadi Nando dalla Chiesa - 29 marzo 2015
Quando si alza in piedi e fissa l’aria Yolanda appare una Manitù femminile. Serena e ieratica, un’energia muta che mette in subbuglio il cuore. I giovani che la guardano capiscono in un attimo che assisteranno a un rito straordinario. Propiziatorio e di maledizione, denuncia e supplica, offerta e richiesta di aiuto. Yolanda Moran (in foto) viene da Coahuila. È la madre di uno dei 27 mila desaparecidos messicani. La ripete spesso quella cifra, come un mantra. Ventisettemila. Per spiegare che il suo paese è allo stremo, che le mille e più vittime innocenti della mafie che contiamo in Italia in un infinito rosario civile, sono nulla davanti a ciò che accade nella sua terra. Ventisette volte solo gli scomparsi, le vittime della cosiddetta “desapariciòn forzada”, più delle vittime del conflitto afghano; e 150 mila i morti.

Rimprovera indirettamente chi parla solo degli studenti di Ayotzinapa. “È stato un episodio terribile”, dice, “ma prima ce ne sono stati a migliaia senza che nessuno se ne accorgesse”. Nemmeno i giovani. Ed è questa forse la parte più amara del suo incontro con gli studenti milanesi. Quando racconta che lei ci è andata alla manifestazione nazionale di Libera a Bologna. “Corruzione, mafie, impunità”. Sembrava si parlasse del Messico e invece era l’Italia. E invece c’era una immensa differenza: la marea di giovani e giovanissimi che manifestavano, una specie di miracolo per lei. “Perché da noi e con noi i giovani non ci sono. Come non ci sono gli intellettuali, che fingono che non stia accadendo nulla. Dopo il sequestro di Ayotzinapa, chissà se alla marcia che faremo il 10 maggio non saranno finalmente con noi anche gli studenti”. Yolanda coordina l’associazione Fundem Regiòn Centro, dove Fundem sta per “Fuerzas unidas por nuestros desaparecidos en Méjico”. La foto del figlio Dan Jeremel Fernàndez appesa al collo mentre parla diritta e orgogliosa in un’aula universitaria le conferisce quasi una forza magica. Venne sequestrato sei anni fa dai militari, suo figlio, 35 anni, professione contabile. Alle spalle, appoggiato a una finestra, ha un altro cartello. Lì le foto sono cinque. Quelle dei nipoti, dei figli del figlio. Una scritta straziante: “Donde està mi papà?”. Spiega però che a dispetto delle foto lei vuol parlare di tutti, perché tutti i 27 mila son “mis hijos”, miei figli. Per tutti vale il grido che sale da migliaia di famiglie: “Vivos se los llevaron, vivos los queremos”. Gli studenti tacciono. Ne hanno sentito parlare, del caso messicano. Qualcuno l’ha studiato. Ma un simile coinvolgimento emotivo non lo immaginavano. Quella specie di divinità india che racconta dolore e non piange, che dice di volere ritrovare vivo suo figlio senza emettere un gemito, spiega la Storia che si sbarazza dei diritti e del progresso con una gomitata. È un panorama che toglie il fiato. Sono desaparecidos anche poliziotti, medici, infermieri, tecnici di telecomunicazioni, chissà che uso ne fanno. Il governo osserva, solo uno Stato su 32 ha modificato le sue leggi per contrastare le sparizioni. “Quando è toccato di essere rapito a un amico dell’ex presidente Calderòn, sono stati impiegati l’esercito e la marina e alla fine l’han trovato vivo. Vuol dire che si può. Ma quando noi denunciamo una scomparsa subito ci fanno sentire in colpa: che cosa faceva, se trafficava in droga, se era uno di loro”. “Ma subite minacce, le autorità vi intimidiscono?” chiede una studentessa. Yolanda non mente, non semina adrenalina gratis. “No, non ci succede nulla, anzi il governo ci riconosce, ci ringrazia, ci usa come alibi per le sue mancanze, ma poi quando vanno a cercare nelle fosse comuni (qui Yolanda chiede di proiettare una foto da capogiro) non trattano con delicatezza i cadaveri, ci vanno su con le pale, li sollevano come cose, e noi madri andiamo sul posto appena lo sappiamo, per chiedere rispetto per i nostri figli.”

Con Yolanda c’è Victor, il suo vice alla guida dell’associazione. Insieme vanno nelle scuole, anche all’estero. A chiedere alla gente l’aiuto che i governi non danno, a spiegare che chi compra droga finanzia gli assassini dei loro figli. “Los Zetas e i cartelli del Golfo hanno rapporti con ’ndrangheta e camorra”, spiega, come per dare una dimostrazione geometrica di quel che ha detto. Dati, foto, numeri: “Cinquantaquattro sono i giornalisti uccisi, contati da Amnesty, non da noi”. Ma anche la speranza, la marcia del 10 maggio che diventa un successo davanti ai media del mondo e rende impossibile il silenzio. Alla fine la supplica, una parola sola, accolta da un applauso interminabile. “Aiutateci”. Una studentessa calabrese si getta al collo di Yolanda, si stringe a lei per lunghissimi minuti, guancia a guancia, in un silenzio irreale. Un ricercatore che si occupa da mesi della resistenza civile messicana (ma loro la chiamano “resiliencia”) ha deciso: il 10 io ci vado. Un giovane giurista ammonisce i colleghi: dobbiamo fare di più per il Messico, deve diventare una questione nostra. Bello questo paese dove non tutti dicono “abbiamo già i nostri problemi”. Yolanda, con le sue parole e i suoi silenzi, ha vinto un’altra delle sue infinite battaglie.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano del 29 marzo 2015

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