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provenzano-bernardo-bigdi Antonio Ingroia - 11 febbraio 2015
Chi o cosa metteva a rischio il testimone Attilio Manca? Chi o cosa bisognava proteggere? Provenzano ovviamente, la cui latitanza andava protetta dalla cattura e dalle malattie perché il boss era, sul versante mafioso, il garante della trattativa che lui stesso aveva stipulato scalzando Riina, dimostratosi troppo irriducibile
Attilio Manca era un medico siciliano e lavorava all’ospedale Belcolle di Viterbo. Era un urologo molto bravo, uno dei primi ad utilizzare la tecnica chirurgica della laparoscopia per operare il cancro alla prostata. Quando fu trovato morto nella sua casa di Viterbo, il 12 febbraio del 2004, non aveva ancora compiuto 35 anni. Li avrebbe compiuti otto giorni dopo, se non fosse stato ucciso, perché io sono certo che omicidio fu. Un omicidio di mafia e di Stato. Un omicidio legato a doppio filo alla latitanza di Bernardo Provenzano e in particolare all’intervento chirurgico per un cancro alla prostrata a cui l’allora capo dei capi di cosa nostra si sottopose a Marsiglia nell’autunno 2003. Un omicidio da inquadrare nell’ambito di quella vicenda torbida ed oscura che fu la trattativa Stato-mafia e che chiama in causa tutte le alte sfere del tempo, vertici della sicurezza nazionale e vertici politico-istituzionali. Che in linea di continuità, a tutela della somma “Ragion di Stato”, ancora oggi vengono difesi nel circuito politico-istituzionale, ove si ammette a stento e a denti stretti che una trattativa vi fu, ma che – per carità – fu una trattativa “a fin di bene”, una trattativa per salvare vite umane,  a cui lo Stato fu costretto per salvare l’Italia. Ma la realtà che si va svelando, pezzo dopo pezzo, a dispetto degli ostacoli sempre più alti frapposti in nome della Ragion di Stato, contiene un’altra verità. Una verità terribile. Sempre più terribile. Che quella trattativa, invece, non salvò l’Italia, e salvò semmai la pelle a pochi uomini politici, condannati a morte dalla mafia perché ritenuti “traditori”. E che, al contrario, quella trattativa finì per barattare quelle “vite di casta” salvate con tante altre vite oneste sacrificate. Una lunga scia di sangue, che uccise servitori dello Stato come Paolo Borsellino e la sua scorta, ma anche comuni cittadini come le vittime delle stragi del 1993 di Roma, Firenze e Milano. E Attilio Manca. Sì, perché Attilio Manca fu anche lui vittima di quella trattativa. Ecco perché è un delitto da rinnegare, un omicidio da dissimulare, simulando le tracce di una morte accidentale.

Quando il corpo di Attilio Manca fu rinvenuto aveva due buchi nel braccio sinistro, mentre due siringhe da insulina furono trovate in casa. La procura di Viterbo non ebbe dubbi e con una fretta immotivata, senza nemmeno considerare alcune evidenze clamorose, decise trattarsi di morte per overdose, se non di suicidio. Insomma, Attilio sarebbe stato un tossicodipendente che, forse per farla finita, si sarebbe iniettato in vena un mix letale di eroina, tranquillanti ed alcol. Il problema è, come subito segnalarono i suoi familiari, inascoltati, che lui era mancino, per cui, se mai si fosse iniettato qualcosa in vena, i buchi si sarebbero dovuti trovare sul braccio destro e non certo su quello sinistro. E poi ci sono le foto, inequivocabili e inguardabili tanto sono impressionanti, del suo corpo senza vita, trovato a letto con il volto tumefatto e il setto nasale deviato propri di chi è stato aggredito e colpito ripetutamente, e con i segni ai polsi e alle caviglie, come di chi è stato trattenuto con violenza mentre viene picchiato ed ucciso.

Ma le anomalie sono tante, in una vicenda giudiziaria paradossale, caratterizzata da prove dimenticate e falsificate, depistaggi, tentativi di insabbiamento, omissioni investigative, contraddizioni e tutto il peggio già visto in tanti altri misteri di Stato. Anomalie simili a quelle emerse in tutti i procedimenti collegati alle indagini sulla trattativa Stato-mafia. Quel dubbio che avevo da pm che indagava sulla trattativa, oggi che sono uno dei legali della famiglia Manca, ora che meglio conosco l’incartamento processuale, è diventato certezza, la certezza di un’ingiustizia di Stato,  una certezza che si è trasformata in indignazione.

Nella mia esperienza non breve da pm ho incontrato a volte timidezza, altre volte sciatteria, altre volte ancora pigrizia professionale e talvolta vera e propria mediocrità sul lavoro. Ma in questo caso si è passato ogni limite. Non c’è bisogno di essere Sherlock Holmes per capire che quelle foto non sono le foto né di un suicidio né di un’overdose accidentale, come invece cerca ancora di sostenere la procura di Viterbo. Sono piuttosto foto che raccontano un omicidio a seguito di un violento pestaggio. E il processo che si sta celebrando a Viterbo, contro la donna che avrebbe ceduto a Manca la dose letale di droga, è una farsa che si basa su una consulenza tecnica ove si scrive solo che Attilio Manca avrebbe assunto sostanze stupefacenti. Fatto incontestabile, ma la perizia non dice come sarebbero state iniettate e da chi. Imbrogliando carte e parole, la procura ha sostenuto su questa base che la perizia dimostrerebbe come Attilio fosse un assuntore abituale, cosa che invece la perizia non dice affatto. Su questa “non-prova” è stato costruito tutto il castello di congetture che ha portato alla conclusione che fu morte per overdose.

Ma perché tutta questa fretta di chiudere il caso senza i veri colpevoli? Perché tanti depistaggi e tentativi di insabbiamento? Ebbene, per capire la vicenda Manca bisogna inquadrarla in un contesto molto più grande e molto più complesso in cui solo il depistaggio, altrimenti immotivato, può trovare un movente. È la storia che ce lo insegna, basta ricordare quanto accaduto nel clamoroso depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio, ove si arrivò a fabbricare a tavolino un falso pentito. I riferimenti e i collegamenti a Provenzano non sono solo suggestioni: il ruolo del boss nella morte di Attilio va inserito nell’ottica sempre più plausibile, anzi probabile, di eliminare un testimone scomodo e attendibile. Non è infatti per nulla azzardato supporre che Attilio, uno dei più bravi specialisti italiani, originario di Barcellona Pozzo di Gotto – dove si ritiene abbia trascorso parte della sua latitanza Provenzano - sia stato contattato per visitare e curare, se non operare, il boss per il cancro alla prostrata, senza sapere chi fosse, per poi essere eliminato in quanto pericoloso testimone. Tesi avvalorata da vari elementi indiziari e concreti riscontri oggettivi.

Ma chi o cosa metteva a rischio il testimone Attilio Manca? Chi o cosa bisognava proteggere? Provenzano ovviamente, la cui latitanza andava protetta dalla cattura e dalle malattie perché il boss era, sul versante mafioso, il garante della trattativa che lui stesso aveva stipulato scalzando Riina, dimostratosi troppo irriducibile. Ma le verità di Attilio Manca mettevano a repentaglio anche quel pezzo di Stato che proteggeva il capo di cosa nostra. Ecco dove sta l’ennesima convergenza di interessi tra mafia e Stato, una convergenza di interessi frutto di un patto scellerato di cui Attilio è stato vittima inconsapevole. È questa la verità che non si deve scoprire, è questa la ragione che porta al depistaggio e ai tentativi di insabbiamento. Ma la battaglia per scoprire cosa c’è dietro la morte assurda di questo giovane e valoroso medico va avanti. In altri casi che sembravano disperati e senza uscita, come nel caso del delitto di Mauro Rostagno, non tutta la verità, ma almeno un pezzo importante di verità è venuta fuori. Per questo non bisogna arrendersi. Nonostante gli attacchi, l’isolamento e le intimidazioni, compresa l’incriminazione per calunnia elevata nei miei confronti per le denunce dei depistaggi fatte nel corso dell’udienza preliminare del processo di Viterbo, caso inaudito e senza precedenti nei confronti di un difensore di parte civile, e cioè della parte danneggiata del reato. Malgrado tutto ciò, non bisogna rinunciare, bisogna continuare a battersi in ogni sede perché tutta la verità venga fuori, sulla trattativa Stato-mafia, sul delitto Manca e sul legame fra la trattativa e il delitto Manca. Lo dobbiamo ad Attilio ed alla sua famiglia. Perché giustizia sia fatta.

Tratto da: loraquotidiano.it

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