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di-matteo-napolitano-cameraoscuradi Rossella Guadagnini - 30 ottobre 2014
Tutto è bene quel che finisce bene, diceva Shakespeare, che oltre a essere un grande commediografo era anche un grande drammaturgo: come dire il riso e il pianto in tragedia e in commedia. Il Capo dello Stato, alla fine, ha reso testimonianza. L’Italia, paese dei segreti di Pulcinella, non ha potuto ascoltare, né vedere, tantomeno parlare – ovvio – messa là, sul comò, un po’ come Ambarabà, Ciccì e Coccò. Le cose sarebbero potute andare diversamente, ma del senno di poi, si sa. E, dopo aver parlato, il Capo dello Stato ha detto: “Rendete subito pubblica la mia testimonianza”. Respiro di sollievo. Ma allora, qualcuno si domanderà, non poteva deporre fin da principio e magari non nella Sala Oscura del Quirinale (detta così fin dal 700 per l’assenza di finestre sull’esterno), senza nessuno presente, a parte una quarantina di persone fra avvocati e giudici della Corte d’Assise di Palermo?

Le incongruenze, del resto, del tutto innocenti, non si fermano qui. Come ad esempio il fatto che Giorgio Napolitano abbia parlato per più di tre ore, sentito come testimone al processo sulla trattativa Stato-mafia, senza aver mai parlato di trattativa. Come che sia il Capo dello Stato, alla fine, ha detto e il Paese pur non avendolo udito, né visto, ha avuto modo di imparare il significato della parola “aut aut” (o o) alla buona, vecchia, maniera latina. Non solo in quanto espressione attinente alla propria deposizione, ma anche circa la tremenda alternativa posta alle istituzioni da Cosa Nostra nel giro d’anni tra il ‘92 e il ‘93.

Dunque un “aut aut” è un imperativo, un ricatto, un bivio. Un sentiero intrapreso come e con chi va ancora stabilito, chiarito, reso noto. A ciò penserà la magistratura inquirente, che è fatta apposta per questo. Noi, in quanto comuni cittadini, che dobbiamo pensare? Cosa dobbiamo credere, ritenere, valutare? Quel che Napolitano non sapeva, pur essendo terza carica dello Stato e sotto minaccia di morte, a questo punto è stabilito. Mentre è solo presunto quello che non poteva non sapere. “La mafia voleva ricattare lo Stato”, dice. “Non so di accordi”. Poi la storia ci dice che Cosa nostra l’ha ricattato lo Stato, ha fatto le stragi e, a un certo punto, ha smesso di farle. Come mai? Una domanda mai posta in quanto ad alcune cose neppure Napolitano può rispondere: non è “Pico della Mirandola”. E la lettera di D’Ambrosio? “Arrivata come fulmine a ciel sereno”. E gli indicibili accordi? “Non me ne parlò. Non discutevamo del passato. Guardavamo al futuro”. “Con Loris eravamo una squadra di lavoro”. Peccato che di futuro D’Ambrosio ne ha visto pochetto.

Unico superstite di una più antica stirpe di comandanti (Scalfaro, allora Presidente della Repubblica, e Spadolini del Senato) la sua deposizione, blindata e inevitabile, è arrivata come l’autunno: foglie gialle, luce tenue. I confini dello Stato sono stati valicati, il ponte levatoio alzato, i ‘barbari’ (stampa e cittadinanza) sono rimasti fuori. Nessuna televisione sul Colle più alto, una specie di damnatio memoriae preventiva. La legge è stata rispettata, la dignità e l’onore pure, come capra e cavoli abilmente traghettati al di là della riva della riservatezza e del ruolo istituzionale, come si conviene. Tutti soddisfatti dunque? Vediamo.

I magistrati certamente sì, dal momento che il quadro tracciato dal Presidente è stato giudicato chiaro e ampio. I detrattori della trattativa certamente sì, dal momento che Napolitano ha negato la trattativa di per sé e si è detto all’oscuro di qualsivoglia genere di accordi, dicibili o indicibili, cui alludevano le frasi della lettera del suo consigliere Loris D’Ambrosio, chiamata in causa per farlo testimoniare. I fautori della trattativa, infine, certamente sì, dal momento che le parole presidenziali confermano la necessità dell’istruzione del processo (quello sulla trattativa, ancora e sempre in discussione), della bontà dell’accusa formulata (attentato a corpo politico dello Stato) e perfino della natura del possibile movente in risposta alle azioni di cui sono incolpati gli imputati (il ricatto, il famigerato “aut aut” appunto) per dirla alla Perry Mason. Una vera pacificazione nazionale. Insomma, pur non volendo azzardare conclusioni, non c’era altra strada.

A questo punto, però, un’altra domanda sorge spontanea: non era meglio ammetterla questa inesistente trattativa? Che spiega tutto, rimettendo a posto i tasselli del puzzle, in un quadro epocale che ha determinato lo sviluppo del ventennio successivo di un intero Paese? Che dà conto di numerose questioni altrimenti inspiegabilissime? Certo, dice il saggio, la strada più facile è spesso quella meno apprezzata dagli uomini, che hanno già un’enorme difficoltà a fare i conti con se stessi, figuriamoci con altri consimili.

E ora? C’è da chiedersi di chi fu la responsabilità di quelle azioni, dal momento che è impensabile, una volta acclarato il ricatto, ritenere che a quel ricatto non sia stato dato seguito alcuno. Troppo ingenuo, infatti, è credere che gli apparati dello Stato siano stati “tutti fermi, tutti zitti” e che non siano intervenuti in soccorso e di più, presumibilmente, magari persino in eccesso, ostacolando pure il soccorso, per ragioni ancora tutte da dimostrare. Quei cattivi dei servizi segreti deviati sembrano lì a bella posta, in seconda fila, schierati dietro le forze dell’ordine, a cominciare dai carabinieri, per fare scudo a nuovi, probabili assalti dei magistrati e meno probabili soprassalti di lealtà.

Ma i servizi segreti deviati davvero esistono o sono una profezia, come il terzo segreto di Fatima? E poi altre domande si affollano alla mente del cronista ingenuo, subito dopo le responsabilità: su chi pesarono le conseguenze di quegli atti, a chi venne comodo, stracomodo e comodissimo quello svolgersi di eventi? E, soprattutto, davvero non c’era altra possibilità, altro modo, di evitarli? Davvero occorreva sacrificare quelle vite e non altre? Chi decise in questo senso? Da chi fu scelto il ‘male minore’?

E, ancora, che accadde dopo, quando i mafiosi divennero tutti buoni, evidentemente accontentati dai lecca lecca dello Stato, tolto il 41 bis e via via, a far seguito alle richieste del papello? E che ne è stato oggi di loro e dei loro discendenti, a parte quei rappresentanti fin troppo ciarlieri di un mondo che fu? Oggi che, grazie al cielo, la mafia è scomparsa al punto che non è più necessario occuparsene, proprio come un tempo non era necessario occuparsene perché non esisteva. Volatilizzata a tal punto che è sparita perfino dall’agenda di un governo troppo affaccendato per occuparsi di tragedie ultraventennali e, di più, di coloro che ne parteciparono come fondatori di partiti e di imprese, di governanti e perfino di opponenti o supposti tali.

“Ambarabà, Ciccì, Coccò, tre scimmiette sul comò”. Umberto Eco, a suo tempo, dedicò un (paradossale) saggio di semiotica alla filastrocca infantile, interpretata come fosse espressione di una cultura aliena. Chi si è preso la briga di darne una spiegazione linguistica, ne ha tratto un altro scioglilingua antico, per restare in tema di aut aut. ”Hanc para ab hac quidquid quodquod”, che visto che si tratta di una ‘conta’ significa all’incirca: “ripara questa (mano) da quest’altra (che fa la conta)…”. Dopo gli accordi indicibili di Loris D’Ambrosio e l’inudibile testimonianza di Napolitano, ci dobbiamo preparare a un verdetto invedibile? Noi, come i ’perfetti innamorati’ della verità, continuiamo a fare il tifo per i pm. Che qualcuno paghi, alla fine. E non finisca tutto a tarallucci e vino nel solito Paese dei segreti di Pulcinella.

Tratto da: blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it

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