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tinti-bruno-web3di Bruno Tinti - 4 ottobre 2014
Il nodo del rifiuto di deporre per evitare il capomafia. Ma se la corte lasciasse a casa il boss imputato, il procedimento potrebbe azzerarsi
Io ho studiato diritto penale sul miglior manuale che ci sia mai stato: quello del prof. Francesco Antolisei. Faceva sembrare facili le cose difficili, il che è prerogativa esclusiva di chi sa davvero quello che dice. Ed era solito utilizzare esempi, allegorie e metafore (spesso caratterizzate da un humour inaspettato) che scolpivano l’argomento. Fra queste, una è conosciuta da tutti: “Non si possono raddrizzare le gambe ai cani”. Intendeva dire che, presa una strada sbagliata, non c’è modo di farla sembrare giusta.

Nel 1990 il giudice veneziano Felice Casson invitò il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga a testimoniare nel processo Gladio. Cossiga rifiutò e Casson rinunciò. Il giudice aveva alcune alternative. Poteva sollevare conflitto di attribuzioni avanti alla Corte Costituzionale; poteva ordinare formalmente a Cossiga di indicare una data in cui fosse possibile sentirlo presso il Quirinale; e perfino ordinarne l’accompagnamento coattivo (sempre presso il Quirinale). La legge, insomma, obbligava il Presidente della Repubblica a testimoniare; ma il giudice decise di non iniziare una guerra che, probabilmente, temeva di non poter vincere. Il potere della forza ebbe la meglio sul potere della legge.

La stessa cosa è successa quando Napolitano ha preteso la creazione di un nuovo codice di procedura penale, costruito apposta per lui dalla Corte Costituzionale, per evitare che vi fosse il pericolo che taluno (giudici, avvocati, cancellieri, poliziotti), infrangendo la legge, rendesse noto il contenuto delle sue imprudenti telefonate con l’indagato/imputato Mancino (processo di Palermo sulla trattativa Stato-mafia). E adesso aspetto con ansia (e solidarietà per i miei ex colleghi) quello che succederà se Napolitano, citato come testimone avanti alla Corte di Assise di Palermo (mediante audizione presso il Quirinale), si rifiuterà di deporre.

Il rischio c’è perché, dopo un tira e molla francamente poco dignitoso, affidato a volenterosi portavoce ufficiosi, sembrava che il Presidente avesse deciso di deporre. Le sue resistenze rendono legittima la supposizione che questa disponibilità derivasse più da una (corretta) valutazione delle conseguenze negative del rifiuto sul piano politico e della pubblica opinione che da un istituzionale rispetto delle norme di legge.

Ora però Napolitano si trova in una situazione che – pare – non gli piace per nulla. Totò Riina, imputato nel processo in questione, ha maliziosamente fatto sapere che intende presenziare all’udienza in cui il Presidente sarà sentito in video conferenza. È stato quasi sempre presente, è un suo diritto esserlo; avrebbe anche potuto non dire nulla e attendere il giorno dell’udienza per presentarsi in aula “frisco come un quarto di pollo”, secondo la fantastica prosa di Camilleri. Invece ha anticipato le sue intenzioni. Il che significa che i suoi avvocati parteciperanno all’udienza e, sempre come prevede la legge, avranno il diritto di interrogare il Capo dello Stato. Elementi concreti non ce ne sono; ma, se tanto mi dà tanto, che Napolitano sopporti che i legali di Riina gli pongano domande pare difficile. Da qui la possibilità che ricalchi le orme del suo poco illustre predecessore e si rifiuti di deporre con la ben nota motivazione del “io so’ io e voi …”.

Gli spazi a sua disposizione per evitare un simile arrogante affronto alle istituzioni repubblicane (non gli piacerà, ma la Corte di Assise di Palermo è tra queste) sono in effetti inesistenti. In particolare Napolitano non può pretendere che Riina non sia presente in udienza, (seguendo la deposizione in video conferenza) né che i suoi avvocati omettano di fargli domande. L’imputato ha diritto di essere presente al suo processo (art. 484 e 420 bis codice di procedura) e se, essendo detenuto, vuole presenziare e non lo portano in aula, si verifica una nullità assoluta (art. 178): processo da rifare.

Ed è qui che torna a proposito Antolisei. In un Paese come il nostro, l’esercizio illegale del potere ha successo. Però, proprio come un cane, ha le gambe storte; fuor di metafora, è ingiusto.

Tratto da:Il Fatto Quotidiano del 4 ottobre 2014

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