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rapido-904-2di Francesco La Licata - 14 maggio 2014
Firenze, il gup: la bomba sul rapido 904 doveva distrarre lo Stato verso il pericolo terrorismo
Il boss Totò Riina è ufficialmente accusato di essere stato il mandante e l’ispiratore della strage del Rapido 904, avvenuta il 23 dicembre 1984 all’interno della galleria della Direttissima, tra Firenze e Bologna. Così ha deciso, ieri pomeriggio, il gup di Firenze accogliendo la richiesta della Procura. Da ieri, dunque, la “strage di Natale” - dapprima archiviata come una oscura vicenda attribuita a personaggi un po’ mafiosi, un po’ camorristi e un po’ gravitanti nel sottobosco della destra eversiva (Pippo Calò, Guido Cercola, Franco Di Agostino e l’”artificiere” Friedrich Schaudinn) - si aggiunge all’intricatissima storia nera e segreta della Prima Repubblica. Entra nel grande calderone dei misteri che popolano l’abbraccio innaturale tra mafia e poteri più o meno ufficiali. Entra nel pentolone di quella che, anche a livello di sentenze, è ormai definita la trattativa continua fra Stato e mafia.

La mafia, in verità, era già finita nelle indagini sull’attentato che provocò 16 morti e 267 feriti, con l’ergastolo comminato a Pippo Calò, il “cassiere” di Cosa nostra trasferito a Roma per tenere i rapporti con i camorristi, con quelli della Magliana e col peggio del terrorismo nero, allora molto in voga e legato a doppio filo con poteri criminali e servizi infedeli. Ma il movente di quel macello non era mai stato chiarito del tutto. Si intravedeva un mondo cupo, si andava per suggestioni, come l’accostamento alla strage ferroviaria dell’Italicus di 10 anni prima (4 agosto 1974), compiuta nello stesso tratto di linea ferrata e inquadrata nell’ambito delle bombe di destra.
Con l’entrata di Totò Riina cambia lo scenario e, soprattutto, la ricostruzione del movente, che diventa esclusivamente politico. La mafia siciliana, infatti, ordinò quell’attentato - sostengono i magistrati - per lanciare la propria sfida allo Stato, per deviare l’attenzione repressiva da Cosa nostra verso un inesistente pericolo terroristico, per fermare la “valanga Falcone” che aveva già innescato la bomba-Buscetta. I mandati di cattura del giudice palermitano arrivarono il 29 settembre del 1984, il blitz di San Michele (poi diventato il maxiprocesso) , la bomba è di tre mesi dopo.
E così la camorra, il clan Misso, il sottobosco fascista, restano nell’indagine ma con il ruolo di esecutori ispirati dal capo dei capi appena diventato padrone assoluto di Cosa nostra, dopo l’assassinio dell’ex padrino, Stefano Bontade (1981) , e dopo la mattanza che azzerò la mafia palermitana e cominciò a cambiare i rapporti politici tra i partiti egemoni (dc, psi e pri) e i nuovi boss.
Fu Falcone a provocare il terremoto, servendosi di Tommaso Buscetta, il grande pentito. Sembrava un’arma spuntata, don Masino. Il giudice non aveva strumenti per poter usare appieno le sue confidenze. Non c’era una legge che regolasse la protezione del testimone, non erano previsti benefici di nessun tipo per il collaboratore. Ma non si arrendeva facilmente, Falcone. Buscetta fu tenuto in un appartamento della Questura di Roma, inavvicinabile. Poi fu nascosto a Palermo, al commissariato di Mondello. Per un periodo, una volta “bruciato” il covo di Mondello, fu spostato in un appartamento di via Croce Rossa, nello stesso stabile dove abitava il vicequestore Ninni Cassarà, ucciso nell’agosto dell’anno successivo.
La facilità con cui, per la prima volta, lo Stato superava ogni difficoltà e stringeva sempre più nella morsa Cosa nostra, spaventarono Totò Riina. La mafia non era abituata alle sconfitte, al massimo sopportava qualche mese di carcere, ma non l’intraprendenza di Falcone.
Nel processo che si aprirà il 25 novembre prossimo, l’imputato Totò Riina dovrà affrontare ancora una volta l’onda lunga dei pentiti: Gaspare Mutolo, Giovanni Brusca, Leonardo Messina, Nino Giuffrè e i collaboratori “napoletani”, precisi - questi - nella ricostruzione della fase esecutiva della strage. Mutolo, Messina, Brusca e Giuffrè, invece, hanno aperto il sipario che svela il retroscena, la scelta “politica” dell’”ala stragista” di Totò Riina. Anzi, Giovanni Brusca ha dato il contributo essenziale, rivelando come l’esplosivo usato nella galleria della Direttissima fosse sostanzialmente uguale a quello che verrà adoperato nel 1992 in via D’Amelio. Rivelazione confermata da un perito di indubbio valore.
Messina ha raccontato l’agitazione e i contatti di Riina, alla ricerca di aiuto esterno alla mafia per organizzare l’attentato; Mutolo e Giuffrè sono stai importanti per ricostruire il momento della frattura col potere politico, una crisi lenta e lunga che sarebbe, poi, esplosa nell’’89 con l’attentato dell’Addaura, nel ’92 con Capaci e via D’Amelio. E con la “vendetta” politica sui politici Salvo Lima e Ignazio Salvo, l’esattore considerato, insieme col cugino Nino, il padrone della Dc. Si apre così un altro grande processo e ritorna sempre più in primo piano la “trattativa” che, se sarà confermata da una sentenza, verrà retrodatata alla metà degli Anni Ottanta.

Tratto da: La Stampa del 14 maggio 2014

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