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travaglio-marco-web30di Marco Travaglio - 8 marzo 2014
Meno male che ci sono gli ex generali Subranni e Mori e l’ex capitano De Donno, altrimenti rischieremmo di dimenticare che: 1) a Palermo è in corso un processo che non s’ha da fare, quello sulla Trattativa; 2) sia gli imputati mafiosi sia quelli istituzionali non vedono l’ora di liberarsi del pm Di Matteo e dei suoi colleghi (sia pure con metodi diversi); 3) l’ordinamento italiano è ancora infestato da leggi-vergogna come la Cirami (imposta da B. nel 2002 per allargare i casi di “rimessione” dei processi in altra sede per “legittimo sospetto” e mai cancellata dai suoi presunti avversari). In questo senso l’istanza dei tre ex ufficiali del Ros alla Cassazione per trasferire il processo lontano da Palermo, come avvenne per il delitto Matteotti e per la strage di piazza Fontana, è un ottimo promemoria.

Il documento più illuminante è quello del prefetto Mario Mori, che illustra in 45 pagine i motivi per cui il processo non può celebrarsi nella sede naturale di Palermo e va dunque strappato alla Corte d’assise che lo conduce da mesi. Il piatto forte sono i messaggi di morte pronunciati da Totò Riina contro Di Matteo e gli altri pm nei colloqui col compagno di ora d’aria, il mafioso pugliese Alberto Lorusso, intercettati l’estate scorsa. Con ampio corredo di articoli di stampa e dichiarazioni dei pm condannati a morte, dei procuratori di Palermo e Caltanissetta, del ministro dell’Interno Alfano e di svariati politici, Mori ritiene che l’ordine di eliminare Di Matteo & C. con una strage modello 1992 sia serissimo e dunque pericolosissimo, così come è attendibile l’analisi che vuole Riina tuttoggi al vertice di Cosa Nostra. Tanto basta per dimostrare “i pericoli per la sicurezza e l’incolumità pubblica”: “in qualunque momento potrebbe verificarsi un attentato” non solo contro i pm, ma anche contro i giudici, i giurati, le forze dell’ordine e tutto il pubblico (“circa un centinaio di persone”) che assiste a ogni udienza nell'aula bunker. Di qui la richiesta di “sospendere il processo fino alla decisione della Cassazione”, che dovrà traslocarlo in un’altra città, con altri pm, giudici e giurati, a causa della “eccezionalità della situazione di ordine pubblico esistente a Palermo”.

E qui casca l’asino per la prima volta: se è vero – come dice Riina e come conferma Mori – che il Capo dei Capi non vuole saperne di questo processo, al punto da maturare un odio inestinguibile per il pm che (insieme a Ingroia) ha condotto le indagini fin dall’inizio, ne deriva che il pericolo di attentato esiste non solo a Palermo, ma in qualunque altra città ospitasse il dibattimento. Di Matteo è a rischio in quanto rappresenta l’accusa in quel processo: se a rappresentarla fosse un suo collega di Napoli o Milano o Vipiteno, questi finirebbe subito nel mirino al posto suo. Del resto, quando Lorusso domanda “Cosa farai se lo spostano?”, Riina risponde: “Tanto (Di Matteo, ndr) al processo deve venire”. Dunque l’attentato si può fare dappertutto. Ergo la rimessione del processo non farebbe venir meno i pericoli di ordine pubblico accampati da Mori & C.: semplicemente li trasferirebbe altrove, su altri pm, giudici e giurati. La norma del Codice sulla rimessione parla di “gravi situazioni locali non altrimenti eliminabili”: queste sono nazionali e ineliminabili. Con la differenza che i giudici di Palermo convivono da sempre col pericolo di morire ammazzati, diversamente da quelli di altre città, che risulterebbero molto più intimiditi. Ma c’è un altro motivo per cui i giudici e i giurati di Palermo non sarebbero imparziali. Mori elogia le manifestazioni di solidarietà ai pm condannati a morte (come quella promossa dal Fatto il 12 gennaio) e le eccezionali misure di sicurezza disposte a loro tutela. Poi però scrive che anche le manifestazioni e le misure di sicurezza “turbano la serenità dei giudici”, portandoli a parteggiare per l’accusa e a perdere l’imparzialità. Anche perché, all’incontro del Fatto , il pg Roberto Scarpinato avrebbe “legittimato l’inchiesta e condizionato il processo”.
 Non solo: citando il Corriere, Mori sostiene che le parole di Riina sono state “utilizzate allo scopo di rilanciare il processo”. Da chi? Dai pm condannati a morte, naturalmente. Col risultato che “il clima a Palermo non è sereno ma condizionato”. E qui ricasca l’asino: dopo 20 pagine spese a citare uno per uno gli ordini di strage di Riina come seri, spontanei e concreti, ora Mori trasforma Riina in uno strumento in mano ai pm che vogliono per fare i martiri e condizionare i giudici a proprio favore. Con tanti saluti non al diritto, ma alla logica elementare. E, sempre riguardo alla logica: ma se i giudici sono spaventati (solo a Palermo) dall’ordine di Riina di piazzare un’“autobomba” nell’aula del processo, come si può sostenere che saranno portati a condannare gli imputati, Riina in testa? Se davvero i giudici si facessero condizionare dalla paura, questa li spingerebbe nella direzione opposta a quella paventata da Mori & C. I quali, in definitiva, hanno messo a segno un plateale e doppio autogol. 1) Affermare che il processo Trattativa può innescare una strage mafiosa è una straordinaria confessione: la miglior prova che la trattativa c’è stata ed è un fatto criminale. Altrimenti perché mai Cosa Nostra dovrebbe preoccuparsene, a tal punto da rompere vent’anni di pax mafiosa e riaprire le ostilità contro lo Stato? Quando mai un innocente che nega non solo la sua colpevolezza, ma addirittura l’esistenza del fatto-reato, ha teorizzato che il processo mette in pericolo l’incolumità pubblica? 2) Come ha notato il pm Vittorio Teresi in aula, è quantomeno singolare che tre ufficiali accusati di aver trattato con l’ala stragista di Cosa Nostra chiedano allo Stato e alla Giustizia di arrendersi un’altra volta alle minacce mafiose, fuggendo alla chetichella dalla Sicilia – come non era avvenuto nemmeno a Palermo ai tempi del ma-xi-processo di Palermo a Cosa Nostra e a Torino con i processi ai terroristi delle Br e di Prima Linea – e facendo un’altra volta il gioco di Riina. Se non ci fossero di mezzo tanti morti, ci sarebbe da scompisciarsi.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano del 8 marzo 2014

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