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napolitano-renzi-berlusconidi Nicola Tranfaglia - 7 febbraio 2014
Che la politica italiana rischi di annegare nell'ipertatticismo e negli scontri personali era fin troppo prevedibile per chi conosce la nostra storia già negli anni ottanta ma ora è del tutto evidente. Sicchè capita di leggere con amaro divertimento la battuta di Altan che mette in bocca al marito: "sono stufo di vivacchiare" con la moglie che risponde: "Muoricchia, allora" o i titoli del giornale che fanno del 20 febbraio prossimo, cioè della nuova direzione del Partito democratico, il "giorno del giudizio".
Ma le carte sono più complicate di quanto possono sembrare a prima vista. E' ormai chiaro che, svanite tutte le ideologie che hanno percorso, fino agli anni novanta, la storia repubblicana, tutto dipenderà dagli attori che giocano la loro parte nel dramma, per certi aspetti decisivo, della repubblica.
Mi limito a enumerarli: il presidente della repubblica, Napolitano (arbitro dal quale molto dipende) Silvio Berlusconi (giunto per molti aspetti all'ultima tenzone) e i duellanti del PD, di un partito centrale ma ancora diviso rispetto a quel che c'è da fare.

Il dilemma è chiaro: o si fanno le riforme economiche e istituzionali, le prime urgentissime, le seconde necessarie ma divisive (per così dire) o tanto vale andare a votare. Come ha scritto un giornale di opposizione, ma molto diffuso: "neanche il mago Houdini riuscirebbe a tenere in vita un governo cui è stato tolto da mesi l'ossigeno politico." E non gli si può dare torto.
Certo, non è detto che Renzi riesca a realizzare tutto quello che ha in animo. Porre termine a una legislatura che, per l'attuale composizione parlamentare e le divisioni persistenti nel PD, rischia di non produrre le riforme. Nè la riforma elettorale risolve tutti i problemi che il giovane segretario del PD pensa di risolvere.
In molti gli ricordano i vantaggi che la destra berlusconiana ha con l'Italicum, la soglia di maggioranza inferiore al necessario quaranta per cento e l'assenza delle preferenze che è un punto fermo dell'uomo di Arcore. C'è dunque il rischio obbiettivo che non si riesca ad andare avanti in parlamento ma, nello stesso tempo, si faccia un favore all'opposizione mantenendo il "Porcellum" o limitandosi a sostituirlo con l'"Italicum".
Per quanto i media siano opportunamente addomesticati, soprattutto a livello televisivo, il rischio di una sorta di sciopero massiccio degli italiani di fronte ad elezioni senza programmi e soprattutto con le medesime candidature (senza nessun rinnovamento degli eleggibili sulla base della competenza e dell'onestà) resta ancora notevole e i risultati non sarebbero necessariamente a vantaggio del partito che mostrasse di volerle con maggior determinazione.
Questa è la forza del capo dello Stato se dicesse di no ma anche delle forze e dei gruppi non convinti del fatto che il nuovo rinvio delle riforme ne garantirebbe soltanto per ciò la realizzazione dopo il voto politico generale.
Ed è questo il problema di fondo di fronte a cui si trovano, prima di tutto, gli attuali duellanti nel partito democratico.
Spingere fino all'estremo lo scontro o, al contrario, soprassedere e rinviare il giudizio decisivo a un momento migliore in cui la crisi economica è alle spalle (il che - lo ha ricordato ieri Prodi - non è ancora avvenuto).

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