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ingroia-antonio-web51di Antonio Ingroia - 31 gennaio 2014
Che accadrebbe in un Paese normale se il capo dell’organizzazione criminale più potente e violenta, responsabile di stragi e omicidi politici, condannasse a morte il magistrato più esposto, rivendicasse con efferato orgoglio di avere ucciso altri giudici e lanciasse messaggi obliqui al mondo politico, fino a tirare in ballo perfino il Capo dello Stato? È facile immaginare che scatterebbero severi provvedimenti governativi, cadrebbero teste, i media si mobiliterebbero, i magistrati verrebbero protetti al massimo livello. Ma qui tutto è alla rovescia, perfino il senso comune.
E allora è meglio rammentare che Riina non è un vecchio mafioso in disarmo, bensì ancora oggi il capo di Cosa Nostra, seppur detenuto al 41-bis, anche perché nessuno dei boss attualmente latitanti, neppure il mitizzato Matteo Messina Denaro, ha il carisma per diventare il nuovo “capo dei capi”. E bene hanno fatto i pm di Palermo a depositare quelle intercettazioni ambientali agli atti del processo sulla “trattativa Stato-mafia”, trattandosi delle esternazioni del capo di Cosa Nostra in carica, imputato in quello stesso processo.

Conversazioni importanti in quanto genuine, dove Riina dice quello che oggi pensa e vuole. Mentre nel Paese sottosopra c’è chi arriva a sostenere che siano intercettazioni costruite in laboratorio al solo fine di rianimare un processo morto. E lo fa chi ama abbandonarsi da sempre a farneticazioni dietrologiche, come Facci su Libero e Sottile sul Foglio, non nuovi a simili prodezze, e quindi consapevoli che portando avanti fino alle estreme conseguenze logiche questo ragionamento, drammatico e grottesco, dovremmo dire che Riina ha condannato a morte Di Matteo per fargli un favore.

Ragionamento in sintonia con chi sostenne a suo tempo, nel pieno della bollente e velenosa estate 1989 dei corvi e degli attentati, che Falcone si era messo da solo la bomba all’Addaura al fine di enfatizzare il proprio ruolo e vittimizzarsi per fare carriera. Niente da meravigliarsi. Nessuno reagisce indignato. Questa è da sempre la nostra patria ingrata, ben rappresentata da istituzioni che dimenticano di supportare i magistrati nel mirino della mafia, come sta accadendo al coraggioso Di Matteo ignorato dalle più alte cariche dello Stato.
Il Csm che in visita a Palermo dimentica di incontrarlo. Il Presidente Napolitano, troppo compreso da alte questioni per potersi occupare di un pm esposto per via di un’indagine contro la quale egli stesso ha perfino sollevato un conflitto di attribuzione. Buon ultimo, perfino il presidente della Corte d’appello di Palermo, il quale, pur avendo Di Matteo davanti in occasione dell’inaugurazione dell'anno giudiziario, non lo vede in pericolo e quindi si guarda bene dall’esprimergli solidarietà e sostegno. E invece vede la necessità di bacchettare l’ex procuratore aggiunto che ha coordinato il pool di magistrati che con Di Matteo ha svolto le indagini sulla “trattativa”, e di esprimere riconoscenza allo stesso Capo dello Stato, non si sa per quale motivo.
Forse dal capo dei giudici palermitani sarebbe stato legittimo attendersi la difesa delle prerogative giudiziarie e quindi una richiesta a Napolitano di rispettare la decisione già presa dalla Corte d’assise di sentirlo come teste, non consentendo alcuna interferenza sulle determinazioni in ordine all’utilità della sua testimonianza che ovviamente spetta esclusivamente all’autorità giudiziaria. Prerogativa che non tollera compressioni di sorta da altri poteri, tanto meno dalla più alta carica dello Stato, pena il sovvertimento del principio liberale della separazione dei poteri.

Questo è il clima sempre più pesante che si respira dentro quel Palazzo che sembra tornare a emettere quei veleni che lo hanno reso tristemente famoso ai tempi di Falcone e Borsellino, accerchiati da colleghi livorosi. Un Palazzo ove a tratti ritornano le cadenze argomentative di certe sentenze assolutorie che sembrano vergate alla scuola del giudice “ammazza-sentenze” Carnevale. Sentenze come quelle in cui un uomo di esperienza come il Prefetto e Generale Mario Mori, già capo del Ros dei Carabinieri e dei servizi segreti, viene assolto perché avrebbe favorito boss come Riina e Provenzano quasi “a sua insaputa”. Proprio un brutto clima, che negli ultimi anni torna ad assomigliare troppo a quello terribile della fine degli anni 80 che ha poi prodotto la stagione sanguinosa dei primi anni 90. Non un clima innocente. Come non lo era quello della stagione dei corvi e dei veleni che precedette la stagione delle bombe. Mentre Riina manda messaggi all’esterno e punta il dito contro la magistratura indicata come male assoluto. Ma non lo fa parlando all’esercito degli uomini d’onore, non più disposti ad affrontare una nuova guerra contro lo Stato. Sta invece dialogando a distanza con altri interlocutori. E parla a nome dell’intero sistema criminale mafioso. Non si spiegherebbe altrimenti perché lancia ambigui messaggi al mondo politico, a destra e a sinistra. Poco importa che si compiaccia del fatto che Napolitano non voglia sottoporsi all'esame della Corte d’assise, anche se impressiona questa “comunanza d’intenti” col Capo dello Stato che il capo di Cosa Nostra ostenta. E che indichi Schifani come politico di riferimento (“il senatore che abbiamo”, dice), e quindi sia indulgente verso le forze politiche governative. E invece parli della sua intenzione di uccidere Berlusconi che oggi rappresenta l’opposizione. Quel che conta è che Riina lancia messaggi sinistri al mondo politico, indicando alla politica la magistratura come nemico comune da abbattere. Riina è l’uomo del papello al mondo politico. Ieri e oggi. Questa è la posta in gioco. C’è chi finge di non aver capito, ma ha capito benissimo e si muove di conseguenza.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano del 31 gennaio 2014

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