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dipace-michele-giuseppe-webBotta-risposta tra Michele Giuseppe Dipace e Marco Travaglio - 11 ottobre 2013
Egregio Signor Direttore, in data 28.09.2013, sul quotidiano diretto dalla S.V. è stato pubblicato l'editoriale, a firma del giornalista Marco Travaglio, intitolato "L'Avvocatura Stato-mafia", il cui titolo e contenuto presentano evidenti profili diffamatori nei confronti dell'Istituto che ho l'onore di dirigere. L'autore del predetto editoriale (peraltro, già aduso, in passato, ad affermazioni diffamatorie nei confronti dell'Avvocatura dello Stato) ha, infatti, operato, nel titolo dell'articolo, un inaccettabile accostamento dell'Istituto al fenomeno mafioso, tacciato le tesi difensive dell'Avvocatura dello Stato come degne di "uno squilibrato, un ubriaco o un tossico", spingendosi addirittura, nella parte finale dell'editoriale, ad usare l'espressione "Avvocatura della Mafia"' che potrebbe indurre il lettore a ritenere quest'ultima come riferita all'Istituto. Trattasi di espressioni che esorbitano, macroscopicamente, dai limiti del legittimo esercizio del diritto di cronaca e di quello di critica, e cioè la verità oggettiva dei fatti riportati e la correttezza di espressione (c.d. continenza).

Il limite della verità è stato violato in modo evidente atteso che l'Avvocatura dello Stato non poteva esimersi dall'eccepire, nell'esercizio della propria funzione nonché dei propri doveri istituzionali, la manifesta inammissibilità della richiesta della Procura della Repubblica di Palermo di ascoltare, come teste, il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, attenendosi specificamente ai principi sanciti dalla Corte Costituzionale nella nota sentenza n. 1/2013 che debbono essere applicati anche nei procedimenti giudiziari. Quanto, poi, all'affermazione che le tesi difensive dell'Avvocatura dello Stato sarebbero degne di "uno squilibrato, un ubriaco o un tossico" nonché all'espressione di "Avvocatura della Mafia", utilizzata dall'autore a mo' di chiosa finale, si sottolinea come le stesse violino, all'evidenza, il limite della continenza, il cui rispetto impone l'uso di un linguaggio che, pur esprimendo le idee del giornalista, non può essere gratuitamente diffamatorio, come quello dell'articolo in questione. Alla luce di quanto sopra, si chiede alla S.V. di procedere, senza indugio, alla pubblicazione, a titolo gratuito, sul quotidiano "Il Fatto Quotidiano" della presente nota, ai sensi dell'art. 8 della legge 8 febbraio 1948, n. 47.
In attesa di riscontro, si porgono distinti saluti.

Michele Giuseppe Dipace
Avvocato generale dello Stato
Lettera al Direttore del Fatto Quotidiano, Antonio Padellaro



Purtroppo a diffamare l'Avvocatura dello Stato non sono stato io. È stato l'avvocato Dipace che ha l'onore di presiederla, quando ha sostenuto dinanzi alla Corte d'assise di Palermo, impegnata nel processo sulla trattativa Stato-mafia, che il presidente della Repubblica non può e non deve testimoniare su quanto gli confidò il suo consigliere giuridico Loris D'Ambrosio a proposito di "episodi del periodo 1989-1993 che mi preoccupano e fanno riflettere; che mi hanno portato a enucleare ipotesi solo ipotesi di cui ho detto anche ad altri quasi preso anche dal vivo timore di essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi...". Basta leggere l'articolo 205 del Codice di procedura penale per sapere che la testimonianza del capo dello Stato è espressamente prevista dalla legge, come quella di ogni altro cittadino, con l'unica differenza che l'uomo del Colle dev'essere sentito dai giudici al Quirinale: "La testimonianza del Presidente della Repubblica è assunta nella sede in cui egli esercita la funzione di Capo dello Stato". Chi lo ignora è un ignorante, o se lo sa e dice il contrario c'è soltanto da sperare che sia in stato di squilibrio mentale, o di ubriachezza o di tossicodipendenza. Insomma, il "limite della verità" è stato violato in modo evidente dall'Avvocato dello Stato, non da me. Fatto ancor più grave in quanto egli, al processo di Palermo, rappresenta tutti i cittadini italiani a nome dei quali il governo e la Regione Sicilia si sono costituiti parte civile, dichiarandosi vittime del reato contestato agli imputati. Ed è semplicemente incredibile che chi rappresenta i cittadini italiani e le loro istituzioni si batta per impedire che il Presidente della Repubblica vada a dire la verità su quel che sa. L'avvocato Dipace sostiene che il suo niet alla testimonianza di Napolitano si attiene ai principi sanciti dalla sentenza della Consulta che gli ha dato ragione nel conflitto di attribuzione contro i magistrati di Palermo. Purtroppo non è vero neppure questo. Nell'affermare il concetto (secondo me assurdo) che il Presidente non può essere ascoltato neppure quando parla con un indagato intercettato, la Consulta ci mette una pezza e ricorda che comunque, quando il Presidente è al di fuori delle sue funzioni, "la ricerca della prova riguardo a eventuali reati extrafunzionali deve avvenire con mezzi diversi (documenti, testimonianze e altro), tali da non arrecare una lesione alla sfera di comunicazione costituzionalmente protetta del Presidente". E se il principio vale addirittura per i reati extrafunzionali del Presidente, a maggior ragione si applica quando i reati sono contestati ad altri, come nel processo sulla trattativa. Io, signor avvocato, non ho mai paragonato l'Avvocatura dello Stato a quella della Mafia (che per fortuna non esiste). Ho semplicemente osservato, con sarcasmo persino contenuto dinanzi alla gravità della situazione, che la linea del "non vedo, non sento, non parlo" dovrebbe essere propria dei rappresentanti della mafia, non di quelli dello Stato. Inoltre sono spiacente di deluderla, ma non sono mai stato "aduso in passato ad affermazioni diffamatorie nei confronti dell'Avvocatura dello Stato": in passato mi limitai a far notare come l'Avvocatura dello Stato, difendendo per conto del governo Berlusconi e poi del governo Prodi l'indifendibile causa di Rete4 contro Europa7 (spogliata delle frequenze per trasmettere, pur avendo ottenuto la concessione dallo Stato, a differenza di Rete4) dinanzi alla Corte di Lussemburgo, arrivò a copiare interi brani delle memorie difensive di Mediaset. Una vergogna mai vista. Quindi, signor avvocato, se lei è a caccia di diffamatori dell'Avvocatura dello
Stato, provi a cercare nei suoi uffici.

Marco Travaglio
Il Fatto Quotidiano, 11 ottobre 2013


Tratto da: 19luglio1992.com

In foto: Michele Giuseppe Dipace e Marco Travaglio

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