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travaglio marco webdi Marco Travaglio - 2 luglio 2013
Proseguono gli sforzi dei giornali italiani per confermare l’ultima classifica di Reporter Sans Frontières sulla libertà di stampa, che ci vede al 57° posto nel mondo, alle spalle di Botswana, Niger, Sud Corea, Ungheria, ma con ampi margini di peggioramento. Sabato mattina le agenzie informavano di una strana incursione in casa del pm di Palermo Roberto Tartaglia che sostiene l’accusa al processo sulla trattativa Stato-mafia con i colleghi Di Matteo e Del Bene: ignoti visitatori hanno abilmente forzato la serratura, spostato preziosi gioielli della moglie senza rubarli e individuato e trafugato a colpo sicuro una pen-drive fra le tante: proprio quella contenente verbali ancora segreti dell’inchiesta-bis sulla trattativa. Un messaggio preciso: sappiamo quel che fai, per noi non esistono segreti, entriamo in casa tua quando vogliamo, e attento ai tuoi cari. Un’operazione che puzza di servizi distante un miglio, infatti – a parte il deputato Lumia, il ministro D’Alia e l’Anm – nessun’autorità dello Stato ha solidarizzato col pm. E la grande stampa ha completamente ignorato la notizia (a parte il Fatto, si capisce). Parlare di Tartaglia significa nominare la trattativa, e non sta bene.

Inoltre, a furia di raccontare le minacce subìte dai pm che l’hanno scoperta (anche Di Matteo e Del Bene ne ricevono da mesi), la gente potrebbe capire che quel processo “non s’ha da fare”. E perché. Mentre gli ignoti visitatori gli entravano in casa, Tartaglia era impegnato in udienza a rintuzzare la raffica di eccezioni e cavilli difensivi non degl’imputati mafiosi, ma dei rappresentanti dello Stato, che fanno carte false per traslocare il processo da Palermo verso lidi più placidi e sabbiosi: quelli di Roma. Magari al Tribunale dei ministri. Mancino ha la spudoratezza di sostenere che la sua presunta falsa testimonianza, commessa nel 2011, sarebbe reato ministeriale: e pazienza se Mancino smise di essere ministro nel marzo 1994. Un ministero, come il diamante, è per sempre. E vale il principio del “lei non sa chi ero io”.
Vedremo che spazio avranno sui giornali di oggi le dichiarazioni di Totò Riina sulla trattativa con lo Stato (“io non cercavo nessuno, sono loro che cercavano me”), sul suo arresto (opera “di Provenzano e Ciancimino, non dei carabinieri”) e sul furto dell’agenda rossa di Borsellino (“c’è la mano dei servizi”), ascoltate dagli agenti che l’accompagnavano in udienza il 31 maggio e riferite ai pm. Ma soprattutto vedremo come verranno presentate. Perché quando parla un mafioso, pentito o meno non importa, politici e giornali si regolano così: se il boss dice cose funzionali al potere, è un testimone attendibile proprio perché mafioso; viceversa, è inattendibile proprio perché mafioso. Brusca era attendibile quando confessò la strage di Capaci e altre decine di omicidi, ma appena parlò di trattativa divenne un bugiardo. Spatuzza era credibile quando smontò il depistaggio su via D’Amelio e se ne assunse la colpa, ma poi parlò di B. e Dell’Utri e divenne un peracottaro. Riina non è pentito: parla da mafioso. Ma stavolta lo fa non con dichiarazioni spontanee in aula (lì ogni parola sarebbe un’autoaccusa, per un boss che nega tutto, anche l’esistenza della mafia): lo fa off records, ma avendo cura di essere ascoltato, perché il messaggio arrivi a destinazione. Sull’agenda rossa e sul suo arresto, Riina non può sapere nulla di preciso: dunque ciò che dice lascia il tempo che trova. Ma sulla trattativa sa molto, perché il primo destinatario della mediazione di Ciancimino per conto del Ros era lui. E le sue parole collimano con tre sentenze definitive sulle stragi del 1992-'93, mentre smentiscono la versione dei rappresentanti dello Stato: la trattativa fu avviata dallo Stato, non da Cosa Nostra. Quando Riina dice “io non cercavo nessuno, sono loro che cercavano me”, sta ricattando chi sa lui, ma dice la pura verità. A questo siamo: il capo della mafia è un po’ più credibile dello Stato.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano

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