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berlusconi-silvio-web1di Andrea Scanzi - 21 aprile 2013
È un’onda che viene e che va. Soprattutto va. A inizio 2013, Pier Luigi Bersani aveva già vinto e Silvio Berlusconi era finito. Un’altra volta. La situazione, quattro mesi dopo, è appena diversa. Dopo le Primarie, Bersani non poteva non trionfare. Aveva un vantaggio abissale: lo squadrone, il giaguaro da smacchiare, Nanni Moretti a tirargli la volata. Eppure ce l’ha fatta. Rigori su rigori sbagliati, e tutti a porta vuota. Match point sprecati con precisione così fantozzianamente chirurgica da lasciar pensare che, dietro a quei disastri insistiti, ci fosse un metodo. Una collusione. Una connivenza.

In cento giorni o poco più, Bersani è riuscito a sbagliare tutto. Consegnandosi alla storia come il sicario (il più noto, ma non l’unico) del Pd. Una sorta di virus che ha distrutto dall’interno quel che restava del centrosinistra. Spolpandolo con bulimia certosina. Dall’altra parte, o per meglio dire dalla stessa, Berlusconi. Quello che a novembre sembrava un po’ rincitrullito, a gennaio riusciva a far sembrare financo Giletti un giornalista incalzatore (“Me ne vado? Me ne vado?”) e che due sere fa suonava allegramente il pianoforte alla serata dedicata ad Alemanno, dedicando canzoncine amene a Rosy Bindi e gioendo – con tutta la claque – per le dimissioni di Bersani. Ovvero uno dei suoi scudieri più instancabili. L’ennesima resurrezione del Caimano ha i connotati arcinoti.

Un mix di talento mediatico, genialità del male e – soprattutto – insipienza degli avversari. Ogni volta che il centrosinistra lo ha visto in difficoltà, si è guardato bene dall’assestare il colpo definitivo. 

Nel ‘97/98 fu la Bicamerale di D’Alema, nel 2007/8 il neonato (già morto) Pd di Veltroni, nel 2011 Napolitano, nel 2013 Bersani. L’elettrocardiogramma di Berlusconi è irregolare. Ogni volta che sembra prossimo alla calma piatta, la presunta opposizione accorre – trafelata – col defibrillatore. La trama non concede particolari variazioni. Funziona così: si arriva ciclicamente a un punto in cui, per mandare Berlusconi in fondo al precipizio, basterebbe una spinta. Una piccola spinta. Anche solo un refolo di vento. È però qui che, puntualmente, accadono due cose: la “sinistra” si intenerisce e – al contempo – Berlusconi recita la parte dello “statista responsabile”.

I primi, con fare pensoso, cominciano a straparlare di rispetto del “nemico” (quale nemico?) e propongono genericissime “larghe intese”. Il secondo, con maestria consolidata, abbassa i toni. Naviga sottotraccia. Non appare. Si nasconde. Rilascia poche considerazioni che i soliti editorialisti cerchiobottisti definiscono (mal celando l’eccitazione) “altamente responsabili”. È avvenuto anche prima del Napolitano Bis. Per osmosi la finta moderazione colpisce anche falchi e colombe, droidi e fedelissimi. Al di là delle irrilevanti pasionarie caricaturali, ora una Mussolini e ora una Biancofiore, i Cicchitto e financo i Gasparri (per quanto possa un Gasparri) paiono meno invasati. Alludono al “paese che ha bisogno di essere governato”. Preconizzano “alleanze per il bene comune”.

Sembrano posseduti dal fuoco sacro della passione politica. La sensazione, vista con occhi minimamente smaliziati, è quella di tanti Jack Torrance (il protagonista di Shining) che a metà film si reinventano Richie Cunningham e ti offrono una gazzosa al bar di Happy Days. Un guasto narrativo che metterebbe in guardia persino Oldoini. Eppure, non si sa come (o forse si sa benissimo), la sinistra ci casca. Sempre. Dicendo e scrivendo: “Dai, Berlusconi in fondo non è poi così cattivo”. Ovviamente, un attimo dopo aver teso la mano (un Presidente, un salvacondotto, un inciucio), Jack Torrance spacca il locale e torna quello di prima.

Tra le resurrezioni del Caimano, quella del 2013 è forse la più scombinata. La sceneggiatura è particolarmente forzata. Del resto è almeno la quarta saga del Lazzaro di Arcore, e anche Rocky IV era più debole del primo episodio. Ciò che non cambia mai è il finale. L’happy ending, però sui generis. In queste pellicole di cinema civile è sempre Jack Torrance che vince. Non tanto perché riesce a uscire dal labirinto, ma perché sono le vittime a indicargli la strada. A porgergli (con sussiego) l’ascia. Nel frattempo i processi restano. La polizia indaga. I testimoni giurano che “è stato lui”. Ma qualcuno, alla fine, un alibi glielo trova sempre. E quel “qualcuno” ha sempre la stessa faccia.

Il Fatto Quotidiano, 21 Aprile 2013

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