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caselli-gian-carlo-webdi Gian Carlo Caselli - 15 gennaio 2013
La relazione del presidente dell’Antimafia Beppe Pisanu ha riscosso pochi apprezzamenti. L’ex procuratore nazionale Grasso – stando al Corriere della Sera del 10 gennaio – ha parlato di “un lavoro importante, punto di riferimento nella ricerca dei responsabili”.

All’opposto troviamo un coro di bocciature più o meno esplicite, con frequente ricorso all’immagine della “montagna che ha partorito il topolino”. Molte critiche puntano sulla parte della relazione che nega l’esistenza di una “trattativa sul 41 bis” mentre ritiene che vi sia stata una “tacita e parziale intesa tra parti in conflitto”, definendo come “ardita operazione investigativa poi uscita dal suo alveo naturale” il rapporto stabilito con Ciancimino dai vertici del Ros, ma senza alcun mandato politico. Distinzioni a giudizio di molti troppo sofisticate, grazie anche all’uso di un linguaggio che, invece della chiarezza, sembra preferire percorsi più tortuosi.

CERTO È che quasi tutti i commentatori hanno rilevato un contrasto praticamente insanabile fra la relazione Pisanu e l’impostazione dei pm di Palermo nel procedimento comunemente rubricato come “trattativa”. Ora, poiché tale procedimento si trova in una fase delicatissima (l’accusa ha formulato richieste di rinvio a giudizio sulle quali il gip dovrà pronunziarsi a breve) non mi è possibile – per evidenti ragioni di opportunità che anche l’Antimafia dovrebbe forse valutare – prendere posizione sul merito della questione “trattativa”.

Proverò a farlo a suo tempo, ma fin d’ora mi sembra utile sottolineare come la relazione Pisanu non si discosti da quel binario di autoassoluzione che sembra l’unico praticato dalla politica quando si tratti di affrontare il tema dei suoi rapporti con la mafia. Fatta eccezione per la relazione Violante del 1993 (approvata pressoché all’unanimità dopo le stragi) le relazioni parlamentari – specie quelle degli anni 60-70 – sono scritte per ridurre tali rapporti a meri episodi locali isolati, con esclusione di ogni profilo rilevante sul piano nazionale.

Ora, poiché i rapporti con la politica sono nel dna della mafia e certamente non possono ricondursi alla protervia “creativa” di qualche inquirente, risulta confermata dalla storia stessa delle commissioni parlamentari l’estrema difficoltà – a dir poco – degli interventi investigativo-giudiziari su tali rapporti. Difficoltà che invece è dolosamente ignorata dai tanti che amano scagliare polemiche “a prescindere” contro le inchieste che non si fermano al versante dei mafiosi di strada, ma affrontano con lo stesso rigore i rapporti delle cosche col potere politico. Ovviamente hanno diritto di cittadinanza tutte le opinioni, purché siano fondate su fatti e non su ipotesi di fantasia, al limite dell’onirico. È il caso, invece, di coloro che citano Giovanni Falcone come grandinasse, per sostenere che certe inchieste lui non le avrebbe mai cominciate o sviluppate perché occorre muoversi su basi probatorie solide. A parte che si tratta di banalità così ovvie che scomodare Falcone non ha proprio senso, il punto decisivo è un altro: nessuno al mondo può arrogarsi il diritto di millantare che l’orientamento di Falcone dopo le stragi del 1992 sarebbe stato questo o quello. Se non altro perché dopo le stragi tutto ontologicamente cambia.

Basti pensare che Tommaso Buscetta a Falcone non disse niente dei rapporti mafia-politica, perché temeva che lui e lo stesso Falcone sarebbero stati presi per folli. Soltanto dopo le stragi (obbedendo a una specie di comandamento morale) Buscetta decise di rivelare quel che sapeva ai pm di Palermo. Che pertanto si trovarono di fronte a un dovere imperioso: affrontare il tema cruciale dei rapporti mafia-politica senza sconti, applicando la legge anche agli imputati “eccellenti”, con determinazione e incisività assolutamente nuove: posto che in passato l’esistenza di tali rapporti di solito veniva ammessa sul piano teorico, per negarla sistematicamente nel perimetro delle prassi investigativo-giudiziarie.

I MAGISTRATI della Procura di Palermo del dopo stragi hanno semplicemente tradotto la scritta che campeggia in tutte le aule di tribunale (la legge è uguale per tutti) in realtà operativa. Differenziandosi da coloro che tendono a defilarsi, magari accampando la scusa che è troppo difficile trovare le prove. Le prove prima si cercano , senza timidezze; e se risultano sufficienti per affrontare il giudizio si va avanti, anche quando l’esito non è scontato. Senza darla vinta alla “scaltrezza” di coloro che privilegiano il quieto vivere; e perciò preferiscono le opzioni investigativo-giudiziarie che espongono di meno. Magari tirando per la giacca i defunti (meglio se illustri come Falcone), attribuendo loro linee di ipotetico intervento prospettate come se fosse possibile e corretto applicare al “dopo stragi” parametri e criteri che (parafrasando Thomas Mann) risalgono a tanto tempo fa, nei giorni che furono, nel mondo che precedette la tragedia – per noi appunto le stragi del ’92 – con cui tante cose sono cominciate e ancora non hanno smesso di cominciare.

Tratto da: ilfattoquotidiano.it

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