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resta-silviadi Silvia Resta - 16 dicembre 2012
Sono qui come cittadina prima ancora che giornalista. Voglio parlare del difficile rapporto tra la questione mafia/politica e l' informazione di questo paese. Quella televisione che segue, senza perdere un' udienza, il processo di Avetrana; se ne appassiona morbosamente, ne costruisce plastici; ma non trova spazio per il processo in corso a Palermo. Che vede plasticamente seduti nello stesso banco boss della mafia e rappresentanti delle istituzioni. Personaggi di ieri ma anche chi oggi osa di nuovo candidarsi per il Parlamento. Sembra che il processo sulla trattativa, ai media interessi poco. Salvo alcune eccezioni: tabù. Ma in fondo non è una novità.

Ho trovato a casa un vecchio notes. Un agenda di lavoro del 1997. C'erano gli appunti di una delle prime udienze del processo Dell' Utri. 1997. Con le dichiarazioni di un collaboratore che parlava di tale Mangano, boss del narcotraffico, che era stato portato ad Arcore. E di soldi dei mafiosi per finanziare una televisione. Erano le prime volte che questi argomenti venivano a galla. In calce a quegli appunti ho trovato una nota.
"Non interessa". Scrivevo: "In redazione non hanno voluto il pezzo... Hanno detto: Mangano chi? Arcore? Lasciamo stare". E quel servizio- come altri del genere- non andò in onda. Nessuno ha potuto vedere e sapere.
Ecco. Mi chiedo. Se l' informazione, venti anni fa, avesse potuto raccontare per bene. Se quando l' Italia è stata trasformata a suon di bombe in un laboratorio criminale come mai era successo prima, nemmeno con la strage di Piazza Fontana, il giornalismo avesse potuto fare fino in fondo la sua parte... Sono passati venti anni. Anche oggi la materia, quella del rapporto infetto tra mafia e politica, nelle redazioni, non tira.
Sono stati tempi non proprio facili per chi, nel mio mestiere, ha mantenuto non dico la schiena dritta, che sembra una frase fatta, ma anche solo la semplice curiosità del giornalista nei confronti dei fatti e delle verità. Notizie taciute nascoste o deformate, finite nel cestino prima di essere stampate. Fatti e contesti mai raccontati. Condanne trasformate in assoluzioni. Oplà. Un black out che scatta sempre quando si tratta dei potenti. Quei giornalisti che si sono battuti contro i bavagli sono stati emarginati, additati come faziosi, eversori, sovversivi, anti italiani. Anti italiani. Anche questo è stato detto. Spudoratamente.
Voglio ricordare la fine di una mia inchiesta sulla Trattativa fatta nel 2009. Quando ancora non se ne parlava. Era il seguito di un servizio che aveva proposto un confronto a distanza tra Salvatore Borsellino e Nicola Mancino. E soprattutto un confronto tra due agende. L'agenda di Paolo Borsellino e quella mostrata da Mancino in tv. 
Nella prima era riportato, nel pomeriggio del 1 luglio 92, un incontro con Mancino, al Viminale. La seconda, l'agenda di Mancino, era una pagina bianca.
Intervistato lui disse: "Non conoscevo Borsellino, non ricordo di averlo incontrato." Bene, la seconda puntata di quel servizio finì nel cestino. Censurata. Bloccata a un'ora dalla messa in onda perché giudicata "intrasmettibile". Secondo il direttore di allora, era un servizio fazioso e sbilanciato. Mancava la voce della controparte.- mi disse.
Avevo intervistato Salvatore Borsellino, Enzo Scotti, Giancarlo Caselli, Antonio Ingroia, Luigi li Gotti, Piero Grasso, Massimo Ciancimino. Avevo riportato, con tutti i condizionali, le dichiarazioni di Spatuzza. Ma mancava l'altra parte. Trattandosi di un servizio sulla trattativa stato mafia, quale fosse l'altra parte, chi lo sa.
Quella censura è una ferita che ancora mi fa male. Perché allora stupirci oggi se sul processo sia calata questa specie di saracinesca di piombo? Poca attenzione dei media per l' inchiesta -una delle più scabrose dal dopoguerra. Scarsa la curiosità a guardare dentro lo scatolone dell' accusa. Per vedere cosa contiene. E raccontarlo.
Disattenzione che però diventa tormentone quando in estate escono le notizie sulle telefonate tra Mancino e il Quirinale.
Allora lì si sono accesi i riflettori. I fari del set. Ma non per fare chiarezza, anzi...per fare casino, e alimentare il polverone. Per delegittimare l'indagine. Per attaccare le intercettazioni. Fino a rovesciare le parti e mettere i magistrati sulla graticola. Sulla trattativa sulla stampa si sono sentite le affermazioni più disinformate e disinformanti.
Quasi sempre la chiamano "presunta". Ma la trattativa non è presunta. È stata accertata da sentenze definitive ed ammessa da alcuni suoi stessi attori. Qualche collega scrolla le spalle: mica è reato... Certo, la trattativa non è di per sè reato, ma le sue possibili conseguenze criminali forse sì. L'articolo 338 forse sì. Ma questo per qualcuno è dettaglio.
E tra i giornalisti grandi firme c'è chi dice: e anche fosse? Magari è stata fatta a fin di bene, per ragioni di Stato... Io sono una piccola cronista, non posso competere con i più grandi di me. Ma da semplice cittadina penso di poter dire "io so". Io so che se una trattativa con la mafia che mette le bombe, provoca altre stragi, e morti tra i magistrati, e vittime tra i civili, non è certo fatta nell' interesse di noi tutti.
E se una roba del genere rimane nelle stanze segrete del potere, nei retrobottega oscuri, inevitabilmente genera una ragnatela di ricatti che ricade sulla vita pubblica del paese. Ne costituisce una sorta di palla al piede permanente, una zavorra letale. Trattativa che potrebbe aver permesso ai boss di dettare le loro condizioni, venti anni fa. Provvedimenti ad mafiam che potrebbero aver contribuito al saccheggio morale e materiale dell' Italia. Ci troviamo adesso venti anni dopo, un Paese di macerie. Arretrato economicamente e moralmente, regredito nella lotta alle mafie e nei diritti. Involuto nella condizione delle donne.
Spolpato delle sue ricchezze. Che forse si sta svegliando dall' ipnosi del pifferaio magico ma si ritrova in un freddo inverno. Con le strade al buio e le scuole coi termosifoni spenti perché non ci sono i soldi. Con le botteghe dei compro oro che si moltiplicano e il natale più povero degli ultimi venti anni.
Per amore di questo paese e dei suoi figli, dei giovani che hanno diritto alla verità, noi dobbiamo dire "io so". Tagliare il cordone dei ricatti. Pretendere un'informazione giusta. E allora, voglio dire che questo processo sulla trattativa dobbiamo considerarlo come un bene comune, e i magistrati di Palermo un patrimonio di tutti. Una risorsa collettiva. Un bene comune da proteggere e da difendere. E se mi dicono faziosa, chissenefrega.

*Intervento di Silvia Resta alla manifestazione “Noi sappiamo” – Roma 15 dicembre 2012

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