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caselli-gian-carlo-web2di Gian Carlo Caselli - 13 dicembre 2012
Dieci anni fa moriva Nino Caponnetto, mitico capo del pool di Falcone e Borsellino che seppe realizzare quel capolavoro investigativo-giudiziario che è il maxi-processo. La ricostruzione di centinaia di delitti di mafia dopo decenni di sostanziale impunità.

L’acquisizione, nel rispetto delle regole, di prove sicure contro centinaia di mafiosi. La dimostrazione che la mafia si può sconfiggere, purché lo si voglia davvero e ci si organizzi con intelligenza e coraggio. Come ringraziamento, qualche anno dopo, su di un titolo a tutta pagina del quotidiano Il Giornale, Caponnetto si vide regalare un osceno giochino sul suo nome, trasformato in “Capo-inetto” da chi incredibilmente pretendeva di disconoscerne i meriti eccezionali. Sono “inconvenienti” che tutti coloro che indagano senza sconti su fatti di mafia sanno di dover purtroppo mettere in conto. Ieri come oggi. E ne sa qualcosa Antonio Ingroia, che dell’esperienza di Caponnetto è uno dei più apprezzati interpreti, mentre per qualcuno è solo un “mascalzone”.
Mascalzone, stando al dizionario Devoto-Oli, è una persona abietta, d’animo volgare, che ignora ogni forma di rispetto e correttezza. Nel-l’accezione arcaica del termine, un grassatore o mendicante cencioso. Tutte queste simpatiche cose è Antonio Ingroia secondo Calogero Mannino, che lo ha graziosamente apostrofato proprio con l’epiteto “mascalzone” durante la trasmissione televisiva Servizio pubblico di Mi-chele Santoro del 6 dicembre, rivolgendosi a 2.439.000 spettatori (11,1% di share). Si stava discutendo dell’inchiesta ormai comunemente rubricata alla voce “trattative Stato-mafia”, che vede imputato proprio il Mannino (attualmente senatore della Repubblica) in compagnia di boss, ufficiali del Ros e altri uomini politici dei quali la Procura di Palermo ha chiesto il rinvio a giudizio al Gip competente per la decisione. Difendersi dall’accusa di aver commesso un reato è sempre impresa seria, difficile e impervia. Figuriamoci quando si tratta di fatti che nell’ipotesi dell’accusa configurano vicende fra le più torbide della storia italiana. Per questo il nostro ordinamento prevede che l’accusato sia sempre assistito da un avvocato, cioè da un tecnico specializzato. L’assistenza del tecnico è obbligatoria nelle varie fasi del processo, non anche – ovviamente – in un dibattito televisivo . Dove i rischi, per contro, possono moltiplicarsi fino al punto di indurre chi sta annaspando di fronte alle argomentazioni altrui a perdere il controllo e rifugiarsi nell’angolo dell’insulto. Che è appunto quel che è accaduto al senatore Mannino, mentre Ingroia stava ripercorrendo l’iter del maxi-processo istruito dal pool di Falcone e Borsellino, conclusosi nel gennaio 1992 con una sentenza di condanna (senza alcun precedente nella storia giudiziaria italiana, nonostante che la mafia siciliana fosse all’opera da almeno due secoli).
Sentenza che scatenò una terribile reazione dei boss di Cosa Nostra, folli di rabbia contro i politici considerati “traditori” per aver fatto mancare la copertura sulla quale i boss contavano. Questa rievocazione ormai fa parte dei migliori studi e delle più qualificate ricerche in tema di mafia. Cito per tutti Nicola Tranfaglia, che nel recente volume La mafia come metodo (Mondadori 2012) disegna a pagina 121 un quadro – che menziona anche Calogero Mannino – perfettamente coincidente con la lettura dei fatti offerta da Ingroia nella trasmissione di Santoro. Da questa come da ogni altra lettura si può ovviamente dissentire, ma non è dissenso l’offesa urlata addosso a chi sta argomentando come a volergli tappare la bocca. Dunque, non è propriamente a un capolavoro di dialettica che abbiamo dovuto assistere. E stupisce che nessuno di coloro che compongono l’esercito sempre pronto a dare pesantemente addosso a Ingroia abbia trovato il tempo di intervenire, questa volta, a sua tutela.

Tratto da: ilfattoquotidiano.it

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